Nessun candidato repubblicano, almeno a partire dal 1960, ha vinto quello che ha vinto il tycoon in queste settimane: Alabama, Georgia, Massachusetts, Tennessee, New Hampshire, Nevada, Virginia, South Carolina. Nella corsa alla Casa Bianca l'ex sottosegretario di Stato dovrà trovare un compromesso con Bernie Sanders
Donald J. Trump per i repubblicani. Hillary Clinton per i democratici. E’ questo l’esito del Super Tuesday 2016, un giorno che rimarrà negli annali della politica americana come un punto di probabile non-ritorno per i repubblicani, travolti dal ciclone Trump. Il magnate newyorkese si aggiudica otto degli Stati in palio e si appresta a diventare il candidato su cui il partito si raccoglierà, o più probabilmente si dividerà, alla Convention di Cleveland del prossimo luglio. Per i democratici, Hillary Clinton ottiene vittorie convincenti negli Stati del Sud, dove più forte è la componente afro-americana e ispanica. Ma la candidata non riesce ancora a penetrare nelle roccaforti bianche e progressiste di Bernie Sanders, che si aggiudica Minnesota, Colorado, Oklahoma e Vermont.
Clinton avrebbe portato a casa la notte scorsa almeno 334 delegati contro 145 del senatore del Vermont. Per vincere la nomination democratica sono necessari 2383 delegati, ma bisogna ricordare che vi sono anche i cosiddetti super delegati, che non vengono eletti, e tra questi Clinton ha già la schiacciante maggioranza di 882 a 232. Al Super Tuesday si decide il più alto numero di delegati assegnati nella corsa, con il Texas a fare la parte del leone: 595 per i repubblicani, quasi la metà dei 1.237 necessari per la nomination, 865 per i democratici, più di un terzo del numero magico richiesto per diventare ‘il candidato’ (2.383).
Donald Trump, il candidato inevitabile – A meno che non succeda qualcosa di imprevedibile e catastrofico, Donald J. Trump è il candidato destinato a raccogliere più delegati alle primarie repubblicane. E’ questo il verdetto che il Super Tuesday 2016 conferma e che lo stesso Trump ha evidenziato, all’arrivo dei primi risultati: “E’ una notte incredibile”, ha detto. L’ampiezza della vittoria di Trump – che conquista il Massachusetts e l’Alabama, la Virginia e il Tennessee – mostra che il milionario newyorkese è un candidato senza limiti di geografia e ideologia. Trump vince negli Stati del Nord-est e in quelli del Sud, nel Midwest e nell’Ovest. Conquista aree moderate, come il Massachusetts e il Vermont; e altre estremamente conservatrici come la Georgia e l’Alabama. E’ vero che Texas e Oklahoma gli sono sfuggiti. Ma nessun candidato repubblicano, almeno a partire dal 1960, ha vinto quello che ha vinto Trump in queste settimane: Alabama, Georgia, Massachusetts, Tennessee, New Hampshire, Nevada, Virginia, South Carolina.
La vittoria di Trump lascia il partito repubblicano attonito, diviso, senza una vera strategia. A nulla è servito l’allarme della dirigenza sulla “eleggibilità” di Trump alle elezioni di novembre. A nulla sono serviti gli attacchi che, ancora negli ultimi giorni, l’establishment ha lanciato contro Trump: preso di mira per non essersi distanziato a sufficienza dal leader del Ku Klux Klan, David Duke; o per aver dato un’intervista off the record al New York Times, in cui esprimeva posizioni molto più moderate, rispetto a quelle pubbliche, sull’immigrazione e sul muro da innalzare al confine messicano.
A nulla, appunto, sono valse le accuse di essere doppio, razzista, instabile, inaffidabile. Come a nulla, mesi fa, erano servite le accuse di essere un clown e una macchietta politica. Trump ha superato ogni tipo di critica, polemica, attacco. Si è scrollato di dosso, spesso solo con una battuta, una smorfia, tutto quello che l’establishment repubblicano ha detto su e contro di lui, e marcia tranquillo verso la nomination.
Gli scenari possibili ora sono due. Trump conquista i 1237 delegati necessari ad incoronarlo alla convention di Cleveland, il prossimo luglio. O conquista un’ampia fetta di delegati, ma non tutti i 1237, e si va allora a una “open convention”, a uno scontro violento e senza esclusione di colpi in cui l’establishment del partito cerca di sottrargli la vittoria. Sarebbe l’opzione più distruttiva, quella più temuta e, fino a qualche mese fa, inconcepibile, per il partito repubblicano.
Cruz, Rubio e il crollo dell’establishment repubblicano – Il Super Tuesday offre qualche altra considerazione in merito alla battaglia interna al G.O.P. Anzitutto, Marco Rubio esce pesantemente sconfitto. Riesce a vincere soltanto in Minnesota, perde la Virginia, che sembrava alla sua portata. Poco, troppo poco per il candidato su cui i big di Washington puntavano come alternativa a Donald Trump. E’ vero che i supporters del senatore della Florida indicano proprio la Florida, che voterà il 15 marzo, come l’inizio della riscossa per Rubio. Ma i numeri sono numeri e Rubio, sinora, ha conosciuto più cadute che successi. Dopo l’arrivo dei risultati del Super Tuesday, Rubio ha detto che “tra due settimane, proprio in Florida, manderemo un messaggio forte e chiaro. Il messaggio che il partito di Lincoln e Reagan non sarà mai guidato dal genio della truffa”. Oltre la retorica, nessuno sembra però più credergli. La scelta conservatrice e “presentabile” del partito, il candidato ufficiale dell’establishment, è destinato con ogni probabilità a una rapida uscita di scena.
Il Super Tuesday si è invece rivelato un’ottima serata per Ted Cruz. Cruz ha conquistato il “suo” Texas e l’Oklahoma. Le prossime tappe – da qui al 15 marzo – gli sono favorevoli. Il senatore potrebbe mettere a segno importanti vittorie in Stati conservatori come la Louisiana e il Kansas. E’ vero che, a una prima analisi del voto, Cruz non riesce a conquistare fette maggioritarie di elettorato evangelico. Ma è anche vero che a questo punto Cruz appare come l’unica, anche se debole, alternativa a Trump. Come lui stesso ha detto, martedì notte: “La nostra è l’unica campagna che ha battuto, e può battere, Donald Trump”. Si tratta, ovviamente, di un avvertimento al suo stesso partito: se non vi raccogliete dietro di me, è finita.
Il tema Cruz porta diritti a quello della caduta dell’establishment repubblicano. C’era soprattutto un’ipotesi che, agli inizi di queste primarie, appariva urticante per i big del partito: una sfida Trump-Cruz. E’ quello che sta avvenendo. Se infatti Trump è considerato un candidato profondamente estraneo alle tradizioni politiche repubblicane, Cruz è forse il politico repubblicano più odiato dalla macchina del partito di Washington. La sua continua retorica anti-élites, l’attitudine a non seguire la disciplina di partito gli hanno conquistato la diffidenza e l’ostilità di molti.
Nell’assistere a un duello Trump-Cruz, quindi, l’establishment repubblicano rimira quindi il proprio fallimento e il disastro di politiche che per anni hanno nutrito la rabbia, il populismo, l’estremismo della base. Il partito di Lincoln e Reagan è, per l’appunto, giunto a un punto cruciale della sua storia. A Cleveland, a luglio, al momento di scegliere il candidato ufficiale, ci si potrebbe trovare di fronte a una drammatica spaccatura.
Hillary Clinton. Avanti (ma non troppo) – E’ stata una buona serata, quella del Super Tuesday, per Hillary Clinton. L’ex segretario di stato conquista una serie di Stati importanti, ricchi di delegati; soprattutto la Georgia e il Texas. Significativo anche il margine con cui la Clinton riesce a vincere. Oltre 60 punti in Alabama, 40 punti in Arkansas, 35 punti in Tennessee. Come già la scorsa settimana in South Carolina, la Clinton domina nel voto degli afro-americani. In Georgia e Virginia, per esempio, conquista l’80 per cento del voto nero. Buona anche la vittoria, ma molto più di misura, in Massachusetts. A questo punto, dopo le prove positive in Nevada e in South Carolina, il percorso della Clinton verso la nomination appare a buon punto.
Ma non ancora del tutto completato. Il Super Tuesday mostra infatti anche i limiti della candidata, che non riesce a imporsi nelle roccaforti liberal, quelle del voto più progressista, urbano, giovane: il Colorado e il Minnesota anzitutto, ma anche l’Oklahoma e il Vermont. La Clinton, è il verdetto del Super Tuesday, è la candidata delle minoranze, di ampie fette del voto democratico più tradizionale, irreggimentato dalla macchina del partito e del sindacato. Ma continua a non esaltare settori importanti del mondo progressista, che furono centrali alla vittoria di Barack Obama nel 2008 e nel 2012: i giovani anzitutto, ma anche gli indipendenti e la borghesia più moderna e dinamica dei centri urbani. Nel discorso ai suoi sostenitori, martedì sera, la Clinton ha ancora una volta cercato di rilanciare l’idea della “inevitabilità” della sua candidatura. Si è rivolta direttamente a Trump, spiegando che “i giorni migliori per l’America devono ancora venire, e che dobbiamo abbattere i muri, non innalzarli”. Nonostante l’ormai aperta retorica da candidata ufficiale, il team Clinton sa perfettamente una cosa: che per vincere, a novembre, bisogna trovare un accordo, un compromesso, un percorso comune e condiviso con Bernie Sanders e con le forze che stanno dietro alla sua campagna.
Bernie Sanders, la forza delle idee, la debolezza nei delegati – Il Super Tuesday conferma tutte le debolezze, ma anche la forza, del senatore del Vermont. Sanders non riesce a superare i limiti, geografici e ideologici, della coalizione che lo sostiene. Resta un candidato prevalentemente del Nord-est, dell’America bianca e progressista. Nel suo discorso martedì notte, a Essex Junction, Vermont, il senatore ha annunciato di “voler restare in corsa sino a quando l’ultimo degli Stati non avrà votato”. “Usciamo da questa notte elettorale con un solido numero di delegati e ancora molto tempo davanti a noi”, ha spiegato Charles Chamberlain, executive director di “Democracy for America”, un gruppo progressista che appoggia Sanders. In realtà, non è così. Sanders non ha né delegati sufficienti, né molto tempo davanti a lui. Deve decidere, e presto, cosa fare della forza delle idee e dell’energia politica che la sua campagna ha suscitato. Deve decidere se, e come, portarla, e farla contare, nel partito democratico dei prossimi anni.