Donald Trump esce vittorioso dal SuperTuesday mettendosi in tasca la maggior parte degli Stati. La sua nomina a candidato alla presidenza degli Stati Uniti diventa così sempre più probabile. Un outsider del sistema, odiato dall’establishment del partito repubblicano e adorato dalle masse, Trump parla fuori dai denti, fa ridere, esibisce il suo successo a ripetizione, si dichiara indipendente perché ricco e conquista con il suo politically incorrect.

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Giornalisti, analisti politici, sociologi si affannano a spiegare il fenomeno Trump, le ragioni del suo successo e a capire qual è la sua motivazione a candidarsi e quale potrebbe essere la sua politica se fosse eletto. Ma Trump spiazza, dice una cosa e il suo opposto, il suo successo non dipende da un’ideologia precisa, ma dalla sua capacità di vendere se stesso.

Come accade spesso, la satira a volte offre analisi più lucide della realtà politica di tanti pareri colti, e vale la pena di guardare l’ultimo episodio dello show di satira politica Last Week Tonight di John Oliver dedicato a Trump. John Oliver ha capito la misteriosa chiave del successo di Trump: Trump non ha una politica, non è un pericoloso ideologo di destra come Marine Le Pen, Viktor Orban o Matteo Salvini in Europa. Trump è pericoloso perché non è un politico.

Come già vent’anni fa da noi fece Silvio Berlusconi, Trump parassita il sistema politico di aggregazione delle preferenze per fare marketing di se stesso. Politica e marketing sono due attività profondamente differenti, una basata sulla partecipazione dei cittadini, l’altra sulla persuasione dei consumatori. Le due attività hanno negli anni usato tecniche sempre più simili, come la pubblicità e varie forme di propaganda diventando spesso agli occhi del pubblico indistinguibili. Così degli abili uomini di marketing sono riusciti a sfruttare il sistema politico e il meccanismo elettorale per farne uno strumento di auto-promozione. A cosa serva poi l’auto-promozione è un altro problema: a salvare i conti delle proprie aziende, a guadagnare l’immortalità, a soddisfare aspirazioni di gloria…sicuramente non a fare politica.

John Oliver propone un’analisi spietata e verissima di Trump, le cui parole più frequenti nei discorsi sono “Great, Terrific e…. Trump”. Come in un vecchio racconto di Gianni Rodari, C’era due volte il Barone Lamberto, in cui il vecchio barone sa che la chiave della sua immortalità sta nel far ripetere il più possibile il suo nome, Trump ha capito che la chiave del suo successo non è altro che il nome Trump il quale, per un ben conosciuto effetto reputazionale, più è nominato più sarà nominato nel futuro.

Trump è una minaccia per la democrazia, come lo fu Berlusconi ai suoi tempi, perché gioca fuori dalla politica sfruttandone il sistema. Non si sa l’uso che farà del suo successo, sicuramente non ha nulla a che fare con ciò che i cittadini vogliono o pensano, incantati come sono a ripetere il nome “Trump” e a diffonderlo magicamente come un elisir che paralizza le volontà. Trump non vende null’altro che il nome Trump e più lo vende più lo riuscirà a vendere nel futuro. Non ci sono errori politici che può fare o cose sbagliate che può dire che potrebbero sbarrare la strada al suo successo.

L’unico modo è fermare l’inarrestabile ascesa del suo stesso brand, non parlarne più, o come propone sarcasticamente John Oliver, chiamarlo con un altro nome, Drumpf per esempio, che sembra sia l’origine del suo cognome “Trump”, e così fermare il fenomeno di eco che Trump ha saputo abilmente creare per ragioni fini a se stesse. Trump non vuole far vincere un’ideologia, o un’idea, o un gruppo di persone: vuole far vincere Trump. Cosa farà poi del suo brand è tutto da capire. In questo la minaccia Trump, come fu la minaccia Berlusconi, è diversa, più “moderna” e misteriosa della minaccia delle destre tradizionali.

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