L'agenzia regionale per la protezione ambientale sottolinea che le sostanze tossiche rilevate in valori altissimi nel rione più vicino all'Ilva sono simili a quelle presenti nei filtri dei camini dell'impianto siderurgico. Associazioni ambientaliste - in base alla direttiva europea 75/2010 - chiedono all'Ue di bloccare la produzione perché c'è pericolo per la salute umana
Le diossine rilevate nel quartiere Tamburi di Taranto in valori elevatissimi, “pari solo a quanto campionato al centro di una discarica della Terra dei Fuochi”, sono simili a quelle presenti nei filtri dei camini dell’Ilva. Lo sostiene Arpa Puglia in una nota inviata martedì al presidente della Regione Michele Emiliano, che aveva invitato l’Agenzia regionale per la protezione ambientale a intervenire dopo la sconcertante relazione prodotta dallo stesso siderurgico in seguito a una campagna di monitoraggio durata 18 mesi. Picchi di diossina fino a quaranta volte superiori ai valori soglia si erano riscontrati nel novembre di due anni fa e a febbraio 2015, ma secondo l’ingegnere Maurizio Onofrio del Politecnico di Torino, che ha firmato la relazione per conto di Ilva, quei valori non sono attribuibili agli scarichi del siderurgico poiché le “impronte digitali” delle diossine erano diverse da quelle prodotte da Ilva.
Una ricostruzione ora messa in discussione da Arpa Puglia, che nella nota inviata a Emiliano sottolinea come, nei mesi di novembre 2014 e febbraio 2015, “all’eccezionale aumento di diossine” rilevato nel deposimetro del quartiere Tamburi “non ha corrisposto un aumento della quantità complessiva di polveri raccolta del deposimetro”. Un dato che consente ad Arpa di sostenere che “la concentrazione delle diossine in tali polveri ha raggiunto limiti così elevati da essere confrontabile solo con materiali polverulenti contaminati in misura estremamente alta, quali le polveri di abbattimento delle emissioni dell’impianto di sinterizzazione dello stabilimento siderurgico”. Insomma per Arpa Puglia una fonte possibile sarebbe ancora una volta l’Ilva con i suoi processi produttivi. A renderlo “ancor più verosimile”, inoltre, ci sarebbe anche il “confronto tra i profili dei congeneri delle diossine delle polveri raccolte dai deposimetri” nei due mesi incriminati e quelli “delle polveri di abbattimento dell’impianto di sinterizzazione dello stabilimento“. Insomma le due polveri, per l’Agenzia regionale di protezione ambientale, hanno le stesse impronte digitali.
Il direttore di Arpa Puglia Giorgio Assennato, in una conferenza stampa convocata in mattinata, ha poi attaccato Ilva per la mancanza di collaborazione. Al di là della provenienza di quelle diossine, la concentrazione raggiunta al quartiere Tamburi, il più vicino al siderurgico, avrebbe dovuto spingere i vertici dell’impianto a comunicare immediatamente il potenziale pericolo: “Se avessimo avuto prima i dati avremmo potuto eseguire indagini più accurate – ha sottolineato Assennato – Anzi, per ottenere i rapporti di prova ho dovuto inviare un ufficiale di polizia giudiziaria e questo non è sicuramente un buon esempio di pratica ambientale”. Nella nota destinata al governatore della Regione Puglia, Arpa racconta anche di un particolare rilevante alla luce dei valori raggiunti nel novembre 2014. Durante una visita ispettiva dell’aprile 2015, l’Istituto superiore per la protezione ambientale e della stessa Agenzia regionale hanno chiesto a Ilva i rapporti di prova contenenti i risultati dei campionamenti nei deposimetri. Ilva li ha inviati ad Arpa tre mesi dopo ma “per le diossine – scrive Assennato – arrivavano solo all’ottobre 2014”. A distanza di cinque mesi da quelle misurazioni “anomale”, Ilva avrebbe deciso di fornire agli ispettori i dati escludendo il mese incriminato con un picco di 791 picogrammi al metro quadro, un valore abnorme rispetto al “valore soglia” di 20 picogrammi.
Quei dati non sono mai stati pubblicati neanche sul sito del ministero dell’Ambiente, che in seguito alle richieste di chiarimenti da parte di Peacelink e Federazione dei Verdi ha spiegato di essere venuto a conoscenza del problema solo dopo la segnalazione del presidente Michele Emiliano del 26 febbraio. È stata quindi Ilva a tenere nel cassetto la relazione, firmata il 23 dicembre 2015 dall’ingegnere Onofrio? Un interrogativo sul quale chiedono chiarezza le associazioni ambientaliste perché, al di là della provenienza di quella diossina, i valori raggiunti avrebbero dovuto far scattare l’allarme. Ma i primi riscontri forniti da Arpa Puglia hanno spinto Peacelink a compiere un passo in avanti: in giornata, infatti, verrà inoltrata una richiesta alla Commissione europea per chiedere la revoca dell’autorizzazione a produrre in base ai paletti fissati dalla direttiva europea 75/2010 che prevede, in caso di pericolo per la salute umana, che le autorizzazioni a produrre degli stabilimenti industriali che non rispettano l’Autorizzazione integrata ambientale possano essere ritirate. E pericolo per la salute a Taranto c’è sicuramente stato, visto che quei picchi di diossina, come spiegato da Assennato, sono stati rilevati solo al centro di una discarica della Terra dei Fuochi.
In giornata, poi, l’Ilva ha diramato una nota per dire la sua sulla questione e sottolineare di “di aver fornito ad Arpa Puglia, nei termini e secondo le modalità previste, tutti i dati sulla presenza di diossina rilevati dai deposimetri delle nuove centraline installate in ottemperanza alle prescrizioni Aia“. Secondo la perizia “realizzata per conto della società – ha aggiunto l’azienda – dal Politecnico di Torino, i valori anomali di diossina riscontrati nei deposimetri della centralina del quartiere Tamburi non sono stati determinati dalle attività industriali del gruppo. Appare evidente come l’impronta digitale delle polveri depositate a Tamburi differisca da quella delle polveri raccolte da Parchi e Cokeria e sia indicativa della presenza di contributi dovuti a sorgenti differenti da quelle dell’insediamento industriale”. “Lo studio del Politecnico di Torino – ha fatto notare Ilva – esplicita chiaramente che la composizione delle diossine rilevate nel deposimetro ubicato nel quartiere Tamburi è differente da quella delle diossine rilevate all’interno dello stabilimento. Pertanto si esclude che i picchi di diossina siano riconducibili al siderurgico e si invita a cercare altre possibili fonti”. L’azienda “conferma la propria disponibilità a fornire tutto il supporto necessario alle autorità competenti nello svolgimento di ulteriori analisi sui dati raccolti”.
Aggiornato da Redazione Web alle 20.05 del 2 marzo 2016