Telefonate, ordini, messaggi che partivano dalle celle della Casa circondariale di Velletri, dove i cellulari entravano senza grandi problemi, insieme alle dosi di cocaina e hashish. “Una situazione che potenzialmente potrebbe riguardare anche altri istituti di pena del Lazio”, aggiunge il procuratore di Velletri Francesco Prete
Un filo diretto tra il carcere e la strada. Telefonate, ordini, messaggi che partivano dalle celle della Casa circondariale di Velletri, dove i cellulari entravano senza grandi problemi, insieme alle dosi di cocaina e hashish. “Una situazione che potenzialmente potrebbe riguardare anche altri istituti di pena del Lazio”, aggiunge il procuratore di Velletri Francesco Prete, che, insieme al pm Giuseppe Taglialatela, ha chiesto ed ottenuto 14 ordinanze di custodia cautelare per bloccare quel “telecarcere” divenuto ormai noto a tutti.
A usare le sim card che entravano clandestinamente, grazie alla complicità di una guardia carceraria e di un infermiere coinvolti nell’operazione, erano detenuti di peso. C’era il boss, il “noto camorrista” e un messinese che sta scontando una pena per omicidio. Personaggi di calibro, pronti ad usare quelle linee telefoniche clandestine per organizzare un’evasione o per dirigere attività di estorsione e usura.
L’inchiesta – condotta dalla compagnia dei carabinieri di Velletri, in collaborazione con il gruppo di Frascati e il provinciale di Roma – era partita da uno spunto investigativo che portò inizialmente ad un nome molto noto nell’ambiente criminale della provincia di Roma, Gabriele Cipolloni. Vicino al clan di Michele Senese, è stato coinvolto negli ultimi anni in diverse inchieste per traffico di stupefacenti, ed è ritenuto dagli investigatori un elemento di spicco della criminalità nell’area a sud della capitale. La prime indagini portarono lo scorso anno a scoprire un giro di usura ed estorsioni nella città di Velletri, dove – secondo l’accusa – le direttive arrivavano dal carcere – luogo di detenzione di Gabriele Cipolloni – anche grazie ad una serie di pizzini e di telefonate clandestine.
Da quella prima indagine i carabinieri sono partiti per cercare di scoprire l’intera rete di cellulari nascosti nelle celle. “Per quattro mesi abbiamo intercettato le conversazioni – ha spiegato il procuratore Prete – e i risultati sono stati incontrovertibili”. In un caso in una telefonata un detenuto raccontava senza tanti problemi “ora siamo in tre, con tre telefoni in cella”. Il sospetto della Procura – che ha portato a realizzare le perquisizioni anche in altri sei carceri nella regione Lazio, tra le quali Rebibbia – è che la facilità di introduzione degli apparecchi e delle sim nelle celle sia in realtà un fenomeno molto più esteso: “Immagino che anche altri uffici giudiziari stiano lavorando in questo senso”, ha spiegato il capo della procura di Velletri.
L’inchiesta, dal punto di vista strettamente giuridico, non è stata agevole: “La sola detenzione di un cellulare in carcere non è un reato, ma un semplice illecito disciplinare”, ha spiegato Francesco Prete. Per questo i magistrati hanno ipotizzato il reato di ricettazione, visto che le sim sequestrate erano tutte intestate a persone estranee, facendo ipotizzare la sostituzione di persona da parte dei complici dei detenuti utilizzatori delle linee telefoniche. Una tesi accolta dal Gip di Velletri Zsuzsa Mendola, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare.