C’è una discrepanza di fondo, una gracchiante incongruenza, tra l’idea di trasposizione, seppur giustamente tradita, che gli Oyes (giovane compagnia milanese, in spagnolo “ascolto”, oppure l’inglese sincopato “Oh yes”) hanno avuto e volevano riportare sulla scena tra lo “Zio Vanja” cechoviano e il loro “Vania”. Già dal titolo: se Vanja, con la j in russo è un nome maschile, con la i diventa, in italiano, un nome femminile, e di un personaggio con tale nome non se ne vede l’ombra in questa nuova drammaturgia. I segni di questo “Vania” (vincitore del Premio Giovani Realtà di Udine) però sono raffinati e accurati, come portarlo nella periferia milanese, ai giorni nostri, con un malato terminale in casa.
Rimane il plot, restano i nomi, Sonia (Francesca Gemma canta divinamente a cappella ed è un vero peccato che due canzoni siano fatte partire dal mixer portando via attenzione e poesia), Ivan (Fabio Zulli, dialetto strascicato lombardo, nei suoi sfoghi tra Milan, rende bene insoddisfazione e indecisione), Elena (Vanessa Korn, algida, glaciale, alla fine il personaggio più debole e delicato), il dottore (Umberto Terruso nel suo stile leggero e corposo al tempo stesso), per il resto lo sforzo da parte della platea è tutto teso nel tentare di trovare similitudini e lontananze (tipo gioco “trova le differenze”) con il capolavoro russo, mentre questa compatta e saggia regia di Stefano Cordella ha una sua autonomia, validità, indipendenza e autenticità proprie che certo si ispira al dramma sovietico per atmosfera senza però avere quel respiro di cappa che tutto abbatte e appesantisce spalmato su ogni azione lenta e mirata alla perdita del tempo, considerato come il peggior nemico. Quindi perché il rimando a “Zio Vanja” è così esplicito e dichiarato? Così il paragone sorge spontaneo, netto, diretto, e sembra depotenziare il lavoro degli Oyes schiacciati dal peso della rappresentazione illustre sulle loro spalle, la responsabilità del precedente celebre, la consapevolezza del Padre autorevole. “Vania” non è “Zio Vanja” e oserei dire che non è nemmeno cechoviano.
Di questo “Vania” si colgono immediatamente alcuni snodi salienti e vitali come il respiro del marito della bella Elena, in coma (rappresentato dal mixer di bottoni e interruttori proprio come il pannello ospedaliero), che è un rantolo, un soffocamento, ma anche una boccata d’ossigeno di un subacqueo immerso nei fondali con la sua bombola. Metafora che continua e persiste con le luci (scenografia povera ma funzionale, tangibile, pulita per sottrazione, lineare e decisa) che scendono, calano e colano (potrebbero essere anche flebo) come lampare da pesca notturna o, ancora meglio, come le protuberanze illuminate di alcuni mostri marini degli abissi che azionano l’intermittenza per vedere intorno ma anche per attirare pesci-prede in tutto quel buio immenso.
I personaggi rimangono sempre visibili allontanandosi soltanto se non interpellati in quella determinata scena rintanandosi (paragone calcistico con la panchina) in una cabina-doccia-ascensore o su una sedia laterale (l’idea di quattro sedute delle stesso colore ma di foggia differente è un ulteriore tocco d’eleganza e ricercatezza). Proprio per questa linea scelta, condivisa ed apprezzata abbiamo trovato fuori contesto l’uscita di scena di Elena, dopo aver assunto morfina, verso la platea. In quel momento, eccessivo, sopra le righe e dannunziano, bucando la quarta parete che si era costruita, e ovattata a proteggere la fragilità scenica del ring-agorà che pareva impermeabile ed irraggiungibile – qualcosa si è infranto – sembra essersi spezzato l’incantesimo fino a quel momento ben oliato.
La rassegnazione dell’appartamento di periferia è solida come polenta fredda e rappresa, ma se in Cechov era il tempo appiattito a pressare l’alta borghesitudine aristocratica decaduta e i dialoghi vuoti e l’attesa senza fine era un aspettare che gli eventi si compissero, qui, in questo grigio di pennellate tono su tono tra il bianco sporco e il beige, in qualche modo si ha la percezione di stare nel tunnel ma che la luce là in fondo possa, con fatica, essere colta. E’ come se fossero tutti in uno stato comatoso aspettando che stacchino le macchine. Ma un barlume persevera a balenarsi. Per questo il finale (Sonia è andata all’estero ma ha scelto di tornare ed ha entusiasmo) ci è sembrato se non proprio ottimista almeno possibilista con la risacca dello sciacquare delle onde sul bagnasciuga (“Il mare dentro”?) e l’allegoria intrapresa tra zio e nipote e gli alberi che non vanno né restano ma stanno (ben differente sfumatura) che indica il non abbattersi, il non mollare, il non tirarsi indietro davanti alle difficoltà, il non cedere, il non arretrare, esprime una resistenza forte, intima, coraggiosa: un domani. Dopotutto Nelson Mandela diceva che “un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è arreso”.
Visto allo Spazio Tertulliano, Milano, il 24 febbraio 2016.