Il silenzio da parte dei media è stato quasi assoluto. In pochi hanno raccontato come da 76 ore su Twitter uno sparuto gruppo di autorevoli economisti stesse chiedendo spiegazioni all’Istat e come in risposta non arrivassero secche smentite, ma solo comunicati interlocutori. Numeri alla mano, i professori dicevano che i conti non tornavano. Che il Pil italiano non poteva essere cresciuto dello 0,8 per cento come aveva sostenuto l’Istituto nazionale di statistica il primo marzo. Ieri finalmente la verità: il nostro Paese nel 2015 ha incassato un modestissimo 0,6 per cento in più che, nella classifica della crescita, ci fa scivolare al terzultimo posto in Europa. Lo 0,8, ha ammesso l’Istat, era un dato grezzo ed era stato diffuso senza ricordare che lo scorso anno si era lavorato tre giorni in più rispetto al 2014. Un dato oltretutto raggiunto perché le regole dell’Istituto – e va detto universalmente applicate – prevedono l’arrotondamento al decimale superiore. Un’operazione che aveva fatto diventare 0,8 l’originario 0,779.
Ora ciascuno è libero di pensarla come gli pare. Chi vuole può anche prendersela con il premier Matteo Renzi e credere di essere davanti a una sorta di complotto. A degli esperti di statistica talmente ansiosi di compiacere il principe di turno da arrivare ad abbellire i decimali. A gente disposta a maquillage e omissioni nei propri comunicati ufficiali al solo fine di permettergli di dire: “A inizio anno avevamo immaginato una crescita dello 0,7%. È andata invece meglio delle previsioni”. Chi scrive però non si arruola in queste fila. Ai cervelloni dell’Istat concediamo, fino a prova contraria, buona fede e presunzione d’innocenza. Del resto da sempre sappiamo che i fatti sono ostinati, ma che le statistiche sono molto più flessibili.
Per questo ora diciamo che in Italia in troppi non fanno fino in fondo il loro mestiere. Per primi i giornali e le tv. Chi lavora nei media, dopo aver dato tanto spazio e tanta enfasi a dei risultati di crescita di fatto imbellettati, aveva il dovere di raccontare che da tre giorni, sotto gli occhi di milioni di italiani iscritti a Twitter, l’Istat stava partecipando a un singolare dibattito condotto a colpi di numeri, tabelle e comunicati. E se è in democrazia è legittimo che un gruppo editoriale, come per esempio quello nascente tra La Stampa e Repubblica, scelga una linea filogovernativa, è invece profondamente sbagliato ignorare le notizie. Anche ieri sui siti di Repubblica, de La Stampa e del Sole 24 Ore, i dati statistici corretti erano introvabili nei titoli. Per leggerli era necessario armarsi di lente d’ingrandimento e scovarli affogati nei pezzi. C’erano invece sull’homepage del Corriere della Sera.
Avanzare dubbi e soprattutto dire le cose come stanno serve però a migliorare i comportamenti e le scelte delle classi dirigenti. Le costringe ad affrontare la realtà e a trovare soluzioni per cambiarla. Dimenticare che sempre e ovunque, non solo in Italia, chi fa politica si abbraccia alle statistiche come gli ubriachi si abbracciano ai lampioni, non serve. Perché quando si è ebbri (di potere) aumenta il rischio di vedere lampioni e numeri più grandi del reale. E in quelle condizioni bastano pochi centimetri d’errore per cascare e romperti la faccia. Meglio allora avere accanto qualcuno che ti dica: “Occhio, forse stai sbagliando”. Piuttosto che dei paurosi cortigiani pronti solo a raccogliere i tuoi cocci.
Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2016