Dunque stiamo scivolando in guerra e il premier Renzi crede di gestire il tema, accusando i media di “immaginare scenari di guerra italiana che non corrispondono alla realtà”. Quando l’ombra di un conflitto si avvicina – fosse pure necessario o persino giusto – due domande diventano essenziali per l’opinione pubblica. Quanto conta il nostro Paese? E quale è la sua strategia?

Il governo è partito molto male. Dall’America, dal Wall Street Journal si è saputo che l’Italia è “pronta” a guidare una forza internazionale in Libia e la pianificazione dell’intervento “è a un livello molto avanzato”. Dallo stesso giornale si era saputo che l’Italia “accetta tacitamente missioni di droni armati statunitensi sulla Libia”. Notizie e ruolino di marcia vengono dall’estero. Segue l’ambasciatore statunitense, che al Corriere della Sera specifica: “L’Italia potrà fornire fino a cinquemila militari”. Un diplomatico estero informa gli italiani di quanto dovranno contribuire in termini di soldati. Non c’è nessuna arroganza, si badi bene, nell’intervento dell’ambasciatore John R. Phillips. Semplicemente è una persona ben informata, che porta alla luce quanto è noto a Washington sulla disponibilità già assicurata dietro le quinte dal governo Renzi.

Matteo Renzi visita i militari italiani in Afghanistan

Non ci fa una figura brillante il premier solito a vantarsi che con lui l’Italia non va più in giro con il “cappello in mano” come i suoi predecessori. In realtà Craxi e Andreotti, Prodi, D’Alema o Monti non sono mai stati percepiti nell’arena internazionale come gente con il cappello in mano. L’unico raffigurato con un gelato in pugno (Economist, agosto 2014) è l’attuale presidente del Consiglio. Perché in politica estera conta il peso reale di un uomo di governo. Tweet, battutine e veline stanno a zero.

E poi c’è lo scandalo delle intercettazioni statunitensi all’allora premier Berlusconi. Sono passate due settimane e dagli Usa non è venuta nessuna scusa. Francia, Germania, Giappone nell’identica situazione ottennero le scuse dirette di Obama. Renzi no. Questo fa la differenza.

La conclamata disponibilità statunitense a lasciare all’Italia la guida delle operazioni in Libia, in questo quadro, non è un riconoscimento del peso del governo italiano ma un modo di accontentare un alleato docile e un po’ querulo. Tanto gli Stati Uniti non intendono mandare loro truppe sul terreno e Francia e Inghilterra non hanno nessun interesse questa volta a fare i capofila.
Che adesso il premier italiano – alla vista dei sondaggi compattamente contrari – predichi che “non è il tempo di forzature, ma di buon senso ed equilibrio”, rivela un’inquietante improvvisazione visto che già un anno fa il ministro della Difesa Roberta Pinotti dichiarava che l’“Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione” contro il Califfato (Isis), indicando persino i soldati impegnare: circa cinquemila.

Preoccupa la scarsa consistenza della compagine governativa. Tranne poche eccezioni il consiglio dei ministri non è composto da personalità, che per ruolo politico, particolare esperienza o carattere siano in grado di costringere il premier a una discussione reale sulle prospettive del conflitto. Meno che mai hanno la forza di contraddirlo su scelte sbagliate. Un consiglio dei ministri, che accetta chinando la testa una norma demenziale come quella inserita personalmente da Renzi nel dicembre 2014 (e più tardi ritirata sotto la tempesta delle proteste) sulla depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile, offre poche garanzie di sapergli tenere testa durante una crisi seria.

Mario Adinolfi, renziano appassionato, ha spiegato una volta in televisione che il modello di leadership di Renzi è rimasto in fondo quello di Firenze, dove in giunta lui dettava la linea e poi il consiglio comunale non doveva fare altro che approvare. E’ un po’ poco come base di esperienza per guidare un Paese in guerra.

C’è un altro elemento che differenzia – in peggio – la situazione italiana da quella delle altre democrazie avanzate. Lì i leader alla vigilia di un conflitto sono in costante dibattito con l’opinione pubblica e i media. Senza tweet o veline. Leader attenti a costruire un consenso nazionale unitario, prospettando rischi, prospettive, obiettivi di un’azione militare, compresa l’imminente probabilità o la certezza (lo fece Cameron dopo la strage di Parigi) di attacchi terroristici. Leader che accettano sistematicamente il contraddittorio con i media, senza evocare in modo infantile i “gufi”.

Sembrano dettagli, ma la qualità della leadership nelle stagioni difficili è cruciale. E’ allarmante il totale vuoto di analisi delle prospettive, dei modi, dei mezzi, delle strategie di una guerra all’Isis nella Libia ridotta a terreno di bande.

Dal ragazzo di Rignano in tutti questi mesi non è venuto un solo discorso di respiro sulla Terza guerra mondiale in atto. Ad ogni giro di boa ripete “Faremo la nostra parte”, il che lascia il sospetto di un andare a rimorchio dei veri soggetti che contano nell’area internazionale.

Il clima di superficialità richiama alla memoria un solo precedente: l’irresponsabilità con cui venne lanciato l’attacco mussoliniano alla Francia nel giugno 1940. D’altronde sulla scena europea il governo Renzi è di scarsa incidenza.

Quando Hollande e la Merkel discutono di Siria, nessuno invita Renzi. La “serrata” dei Balcani lo vede spettatore impotente. Eppure l’Italia – che ancora oggi ripropone giustamente il problema – avrebbe tutte le ragioni per chiedere una seria politica comune europea di accoglienza, rimpatri e ripartizione obbligatoria dei migranti, che aumenteranno drammaticamente. Ma a questo scopo bisogna saper agire come Cameron: trattare in silenzio e duramente a difesa degli interessi del proprio Paese. Non limitarsi a sparate variopinte. Che provocano sorrisetti tra i diplomatici, i quali fanno notare come il premier nei vertici europei, una volta chiuse le porte, abbassi notevolmente la vocina.

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