Periodici sondaggi e ricerche segnalano come l’Italia sia il paese che in Europa raggiunge il picco più alto di antigitanismo malgrado il numero di rom e sinti presenti sul territorio sia sensibilmente più basso rispetto ad altre Nazioni. Tale preoccupante fenomeno, segno inconfutabile di un bassissimo livello di civiltà, richiede misure urgenti non solo sul versante culturale ma anche di quello legislativo.
Non si tratta di emendare “leggi speciali” per soli rom, come molti suggeriscono, ma più semplicemente di colmare quei vuoti normativi che, anche di fronte alla legge, rendono rom e sinti cittadini di “Serie B”. Bastano solo due esempi per dimostrare la responsabilità degli organi legislativi di fronte al razzismo crescente percepito e reale.
Il 15 dicembre 1999, quando il governo italiano è guidato da Massimo D’Alema, il Parlamento emana la legge n. 482 denominata “Norme in materia di tutela delle minoranze storiche”. Per valorizzare le lingue e le culture presenti sul territorio nazionale vengono riconosciute dodici minoranze rappresentate dalle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. La tutela linguistica si estende dal 1.300.000 di sardi ai 2.100 croati che vivono in tre Comuni del Molise. Malgrado cinque anni prima il Parlamento Europeo aveva riconosciuto «che il popolo rom è una delle minoranze più importanti dell’Unione Europea» raccomandando ai governi degli Stati membri «di completare la Convenzione europea dei diritti umani con protocollo aggiuntivo sulle minoranze, nel quale la definizione di minoranza possa comprendere i rom in forma esplicita, attraverso un riferimento alle minoranze che non abbiano un territorio proprio», l’Italia, nella legge n.482 non include la minoranza rom, rappresentata da almeno 180.000 soggetti, tra quelle riconosciute e tutelate culturalmente dalla legge. Il romanès, lingua antichissima originaria del nord dell’India, resta così al di fuori di ogni tutela culturale e posto a serio rischio di definitiva estinzione.
L’altro esempio di amnesia legislativa è più recente. Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. E’ stato designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal 1° novembre 2005 durante la 42esima riunione plenaria. Il 20 luglio 2000 il Parlamento, a maggioranza di centrodestra con il governo a guida Berlusconi, vota una Legge ad hoc per l’«istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Nel primo articolo si legge che il “Giorno della Memoria” viene istituito in ricordo della Shoah (sterminio del popolo ebraico), delle leggi razziali, della persecuzione italiana dei cittadini ebrei, degli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia e la morte. Emerge le lucida volontà del legislatore di escludere il riferimento allo stermino dei rom e dei sinti omettendo una parte della storia italiana segnata da deportazioni e internamenti che hanno visto come vittime le famiglie rom e sinte.
La dimenticanza del legislatore abbraccia la storia, la cultura e la lingua di un popolo presente da mezzo millennio nel nostro territorio. Solo quando si è trattato di attuare politiche “speciali”, spesso trascinate dall’onda emotiva dell’emergenza sociale, ci si ricorda dei rom. Magari per redigere leggi regionali che istituiscono i “campi nomadi”, o norme nazionali che equiparano la presenze delle comunità rom ad alluvioni e catastrofi naturali prevedendo, di conseguenze, l’attivazione di misure straordinarie in ordine alle risorse economiche e umane da mettere in campo.
Eppure, riconoscere la ricchezza di una lingua antica così come fare memoria del genocidio di un popolo può rappresentare il primo serio tentativo di riconciliare le differenze, di parlare l’unico linguaggio del diritto, di disinnescare le tensioni sociali. Perché oggi più che mai il livello di democrazia e di civiltà del nostro Paese si misura con la capacità che esprime nel rapportarsi con quanti, storicamente, culturalmente e socialmente, continuiamo a considerarli lontani anni luce dal nostro vissuto quotidiano.