Da mesi l'allarme nelle province di Vicenza, Verona e Padova per la contaminazione delle acque da sostanze perfluoroalchiliche. Nel luglio 2013 l’Arpa inviò ai pm vicentini una nota che individuava come responsabile la Miteni di Trìssino, ma da allora nulla è accaduto: "La legge non li prevede come inquinanti". I fusti dell'impianto trovati su mercantili in rotta verso porti africani negli anni Ottanta
È un’altra storia italiana in cui le responsabilità sfumano fino a dissolversi. E alla fine resta solo un veleno insidioso e invisibile, che inquina l’ambiente in modo “persistente”. I Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche, hanno quel nome ostile e impronunciabile tipico dei composti chimici. Secondo Edoardo Bai, ex ufficiale sanitario e medico dell’Isde che da anni si batte per far emergere il problema, sono “un altro inquinante universale” equiparabile ai casi dei composti più noti “come il Ddt, i Pcb e le diossine”.
In Veneto quell’acronimo impronunciabile cominciano a conoscerlo in molti, ora che le province di Vicenza, Verona e Padova risultano contaminate, e i funzionari regionali – come rivelato da ilfattoquotidiano.it – discutono nei palazzi delle istituzioni di un’emergenza sanitaria che temono essere ormai “fuori controllo”. Ma questo caso di inquinamento che interessa la rete idrica di 79 comuni (le autorità sanitarie del Veneto hanno fatto applicare costosi filtri al carbonio agli acquedotti delle zone a rischio) e forse anche la catena alimentare, non è in cima ai pensieri della Procura di Vicenza. “L’indagine è archiviata” assicura a ilfattoquotidiano.it il procuratore capo di Vicenza, Antonino Cappelleri, tanto da autorizzare la consegna di una copia del decreto di archiviazione del giudice per le indagini preliminari. Ma il pm Luigi Salvadori, titolare dell’indagine sui responsabili dello sversamento, è costretto a smentire il procuratore: “Il fascicolo è ancora pendente”.
Arenato negli uffici della Procura dal luglio 2013, da quando l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente inviò alla magistratura una nota in cui indicava come fonte della contaminazione la ditta Miteni di Trìssino, in provincia di Vicenza, ipotizzando il reato di adulterazione e contraffazione delle acque.
L’azienda chimica Miteni, dal 2009 di proprietà della multinazionale tedesca Weylchem del gruppo International Chemical Investors (Icig), è l’unica fabbrica che produce Pfas in Italia. I Pfas sono utilizzati per trattare pelli e tessuti (Goretex), rivestimenti di carta e cartone anche per alimenti, fondi antiaderente per cottura cibi (Teflon). La produzione di “intermedi fluorurati” nello stabilimento vicentino ha una storia antica, cominciata nel 1964 quando era ancora il centro ricerche della tessitura Marzotto e si chiamava Rimar (“Ricerche Marzotto”). Proprio in relazione ai Pfas, il suo nome era emerso negli anni ’80 anche nel caso delle navi dei veleni, mercantili carichi di scorie delle industrie italiane spedite in improbabili porti africani, mediorientali e del Centro America. Sulla motonave tedesca Line, diretta a Port Koko in Nigeria nell’87 – come riportato in un documento allegato alla seduta della Camera dei deputati del 14 luglio ’88 – accanto al nome “Rimar Chimica” appare la specificazione “peci fluorurate”, cioè gli scarti di produzione della lavorazione dei Pfas. L’azienda compare anche nel carico della nave Zanoobia, rientrata a Genova nel 1988 da Port Koko, ma senza la specifica della sostanza (l’elenco dei nomi delle aziende italiane è riportato in una perizia pubblicata nel libro di Andrea Palladino, Bandiera Nera).
Oggi il gruppo tessile Marzotto, raccontando la sua storia gloriosa, accanto alle partnership con Leo Ferrè e Valentino preferisce non ricordare quello stabilimento nella zona industriale di Trìssino, nella campagna vicentina. Sempre di proprietà di grandi gruppi, negli anni la fabbrica passa alla “Miteni”, joint venture tra Eni e Mitsubishi (’88), e alla giapponese Mitsubishi (’96) prima di essere acquisita dalla multinazionale Icig (’09). Ma nonostante la produzione del composto più tossico (il Pfos, acido perfluoroottanoico) sia vietata negli Stati Uniti dal 2000, in Italia dallo scarico della Miteni continuano a fuoriuscire – secondo le rilevazioni dell’Arpa nel 2013 – circa 4,5 mg/litro di perfluoroalchilati e “gli impianti di depurazione non sono in grado di abbattere questo tipo di sostanze, in quanto non dotati di tecnologia adeguata”.
“Non possiamo procedere perché i Pfas non sono previsti come inquinanti dalla legge italiana – spiegano a ilfattoquotidiano.it fonti della Procura di Vicenza – quindi non vi è indicazione del limite di concentrazione di queste sostanze nelle acque”. Gli inquirenti non se la sentono di contestare il reato più grave di inquinamento delle acque, “per cui sarebbe necessario almeno uno studio epidemiologico”. L’unico studio internazionale, finora, è stato finanziato dalla multinazionale DuPont (che ha brevettato il procedimento di sintesi nel 1938 per la produzione del Teflon), accusata negli Usa di aver sversato nel fiume Ohio grandi quantità di sostanze perfluoroalchiliche.
In seguito a una class action avviata nel 2001, la DuPont fu costretta a versare risarcimenti per 350 milioni di dollari e a finanziare il C8 Health Project (C8HP), studio indipendente sugli effetti sanitari dei Pfas, mostrando le proprietà cancerogene e di interferenti endocrini dei composti chimici. “Un secondo studio epidemiologico in Italia – spiega il dottor Bai dell’Isde – permetterebbe all’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di elevare la classificazione di pericolosità di queste sostanze per l’uomo, che in assenza di più studi al momento sono definite solo “possibili cancerogeni”. E anche se questo – conclude Bai – “potrebbe cambiare il profilo delle responsabilità penali”, l’idea di ordinare uno serio studio epidemiologico sembra essere ben lontana dalle autorità sanitarie del Veneto.