Nel suo recentissimo articolo “When Fallacies Collide” (quando ci si scontra sbagliando) il premio Nobel economia 2008 Paul Krugman prende in esame le recenti dichiarazioni fatte da Mitt Romney (candidato presidenziale repubblicano nel 2012, perdendo la sfida contro Obama) e  Donald Trump (attuale candidato di punta repubblicano nelle elezioni presidenziali 2016) e boccia entrambi dando loro una efficace lezione di macroeconomia che sarebbe comunque molto utile anche a gran parte dei politici, inclusi molti di alto livello.

Primarie Usa 2016, Super Tuesday: Trump  e Clinton in testa

Krugman comincia con l’accusa di Trump ai cinesi. Egli sostiene infatti che, a causa delle manipolazioni sulla loro moneta, questa politica peggiora il già grave “trade deficit” (disavanzo commerciale) tra Cina e America, a danno dell’America, causando un vero e proprio furto di miliardi di dollari nell’economia del paese e milioni di posti lavoro agli americani.

Il miliardario immobiliarista (qualche giornalista americano lo ha già battezzato “Trumpusconi”), inviso all’establishment repubblicano per le sue critiche e per le proposte populiste, propone quindi di resuscitare allo scopo le “countervaling duties”, cioè una specie di tariffa doganale simile a quella praticata contro i paesi esteri scoperti ad aggirare gli accordi commerciali con gli Usa.

Romney, che non corre attualmente nelle primarie ma interviene in sostegno del suo partito, il Gop (Grand old party, ovvero i repubblicani) disperato per la marcia incontrastata di Trump nelle primarie, da vero alfiere del super-liberismo economico sostiene invece che, con la sua “medicina” Trump peggiorerebbe addirittura la situazione, perché riattivando le tariffe doganali darebbe inizio ad una guerra commerciale con il gigante cinese che provocherebbe un aumento dei prezzi sul mercato americano, un ristagno di assunzioni in Cina degli specialisti lavoratori targati Usa e in definitiva costringerebbe moltitudini di imprenditori e  commercianti a lasciare l’America in favore di aree più convenienti. Ciò spingerebbe di nuovo gli Usa in recessione, e potrebbe addirittura avviare una recessione globale.

Krugman, leggendo queste posizioni, tira intanto le orecchie a Romney, che durante la sua campagna presidenziale 2012 sostenne più o meno proprio queste cose che ora rinfaccia a Trump. Il bello è che a quel tempo loro due erano entrambi d’accordo su questa linea, dato che Trump, già eliminato dalla corsa alla Casa Bianca diede pieno supporto proprio a Romney. Ma poi Krugman, quasi deridendoli entrambi, dice che, per la verità, hanno ora torto entrambi, anche se su posizioni opposte, perché se è vero che una politica protezionista diventerebbe una “palla al piede” dell’economia americana, riducendo le prospettive di crescita, non potrebbe essere comunque la causa di una recessione perché, in una economia globalizzata come quella attuale, una guerra doganale tra le due maggiori potenze economiche del globo ridurrebbe di fatto le importazioni di un soggetto per uguale valore di  quanto ridurrebbe le esportazioni dell’altro.

Ma qualcuno potrebbe obbiettare: non fu proprio la guerra delle valute a scatenare nel 1919 la crisi che poi si trasformo’ in quella che oggi conosciamo come “GrandeDepressione” durata più di vent’anni? No, dice Krugman. Il maggiore responsabile della grande depressione non fu la guerra delle dogane ma la parità della moneta con l’oro, che ora è proprio Ted Cruz, altro candidato repubblicano, a voler riesumare se eletto presidente.

(N.B.: Questa spiegazione di Krugman sulla parità con l’oro spiega anche, in buona misura, il disastro provocato dall’euro in Europa. Infatti una moneta euro, comune a diversi Stati che però continuano ad avere una propria politica fiscale e finanziaria, finisce col creare per gli Stati che hanno le monete più deboli lo stesso effetto che fece a quel tempo la parità con l’oro, privilegiando il paese più forte a danno, in misura inversamente più che proporzionale, di tutti gli altri.)

In definitiva Krugman, in un solo articolo, ha dato dell’asino in macroeconomia ai due principali attuali candidati presidenziali Usa e a quello che vinse la sfida delle primarie nel 2012 arrivando ad un passo dalla Casa Bianca. Ma nel giudizio complessivo di queste politiche repubblicane anche Krugman potrebbe sbagliarsi perché, come è risultato negli ultimi dieci anni, non è la crisi o la recessione a spaventare gli ultra-liberisti-capitalisti repubblicani, che hanno trovato proprio in essa il grimaldello per smantellare il welfare europeo e, per quel poco che rimaneva, quello americano. In una visione molto gretta ma efficace delle politiche economiche potrebbe invece essere proprio una nuova recessione strumento perfetto per completare l’opera iniziata, forse solo casualmente sotto questo profilo, nel 2008.

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