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Rocco Siffredi: “Il porno un lavoro di gruppo che serve a far masturbare felicemente qualcun altro, non certo una gioia”

Il pornodivo dal 17 marzo si racconta in un reality in onda su La5: la sua vita, la famiglia, gli amici. A margine del reality c’è la Siffredi Hard Academy, l’Università del porno: "Per insegnare alle nuove leve, se non i segreti, almeno le basi del mestiere"

Mille film e una sola sintesi: “Nel porno incontri ragazze che hanno voglia, ragazze che non ce l’hanno, ragazze bellissime che magari quel giorno sono di malumore a altre ancora che lo fanno soltanto per soldi, non ti guardano in faccia e quando finiscono se ne vanno senza salutarti”. Va da sé che alla professione di una vita, il signor Rocco Tano, ortonese del ’64 diventato poi Siffredi per acclamazione, riservi l’equilibrio di giudizio necessario a non abiurare: “Come a carriera finita, penso a Selen ed Eva Henger, fanno molte pornostar, soprattutto donne. Imitano i serpenti, pretendono di cambiar pelle, se la tolgono di dosso, rimuovono i ricordi, cancellano il passato, negano di aver recitato e ricominciano un’altra esistenza su basi completamente diverse”.

Siffredi guida su un’altra strada: “Non mi sono mai pentito di nulla, lo rifarei 50 milioni di volte, la pornografia mi ha dato tutto”, ma non le giudica: “Perché è vero che nel nostro ambito tutto è lecito, ma a volte le fantasie sono pesanti, le rappresentazioni crude e quando ti volti indietro dirti ‘Ero davvero io in mezzo a tutta quella roba? Non è possibile’ è molto più comune di quanto non si pensi”. Il malessere dell’attore che deve gemere a contratto, dice Siffredi: “Può essere profondo. Bisogna essere professionisti e provare a mantenere umiltà, passione e autocontrollo. Se non ci fossi riuscito, dopo decenni di sesso davanti alle telecamere, sarei uscito fuori di testa”. La stessa moglie, Rosza, dal 1993. Un erede ginnasta, Leonardo, indeciso tra il replicare almeno in parte le orme del capofamiglia scegliendo la recitazione e un possibile futuro da olimpionico ungherese. Un altro figlio, Lorenzo, che rinnega il dogma paterno e si vota alla fedeltà: “Sta con la stessa fidanzata da anni e le altre non le guarda”. Tutti insieme sul palco di La5 nel docureality ambientato a Budapest che dal 17 marzo sarà sul canale numero 30 del digitale terrestre. Sei puntate in tutto (esordio in prima serata, poi in seconda) in cui entrando come da titolo in Casa Siffredi – una reggia –factory con laghetti, piste di atletica, eliporto, mini-zoo – Rocco metterà a nudo un privato più intimo di quello che mostrava generosamente agli esordi in Affamata o Luana la porcona. Al quotidiano dell’attore, ai ricordi, alla famiglia, agli incontri con gli amici e alle riunioni con registi, umoristi, biografi e produttori di vino (Simona Izzo, The Jackal, Melissa P., Jarno Trulli), tra due settimane alle 24 sulla stessa rete, si aggiungerà il Rocco maestro impegnato a formare talenti in Siffredi Hard Academy: “Un’ossessione diventata realtà”.

Ci pensava da tempo?
Da 10 anni. Volevo fare un programma che mostrasse le complicazioni del mio lavoro, ma non ho utilizzato moglie e figli per far vedere il lato oscuro del mio mestiere. Ho chiesto a tutti: ‘Vi va di partecipare a una fiction dove non c’è niente di recitato?’. Mia moglie, una donna pazzesca, mi ha detto: ‘Va bene, a patto che possiamo restare noi stessi senza fingere di essere altro’.

Quindi Casa Siffredi.
Abbiamo movimentato la nostra vita, di una normalità quasi monotona, e ci siamo divertiti.

A margine del reality c’è la Siffredi Hard Academy, l’Università del porno.
Per insegnare alle nuove leve, se non i segreti, almeno le basi del mestiere. Due allievi se ne sono andati via quasi subito, dopo la prima lezione di teoria, appena arrivati sul set. Il problema è che la gente pensa che l’attore porno si fa una scopata e diventa una star per grazia ricevuta. Ci vuole applicazione. Realismo. Devi capire che l’immaginazione e il lavoro non sono la stessa cosa.

E i ragazzi non l’avevano capito?
Si erano sognati un lungo film senza pause, un mondo pieno di ninfomani pronte a succhiargli l’uccello, un paradiso di lussuria tutto per loro, ma il set non è così. Quella è fantasia. Tra professionisti il piacere è solo quello che provochi agli altri. È un lavoro di gruppo che serve a far masturbare felicemente qualcun altro, non certo una gioia né una vera scopata. Non c’è godimento o, almeno, è rarissimo. Nel porno non c’è un solo orgasmo che esca dallo stomaco. È un gesto meccanico. Un calcolo che precede e contiene l’istinto. Vieni quando devi per esigenze di scena, non quando sei felice. Nella vita non passi ore a costruire una scena per dare l’impressione che stai scopando quella donna come nessun altro al mondo saprebbe fare. La realtà è diversa.

E nella finzione?
Devi far leva sull’energia e sull’adrenalina. Più ne metti e meno ti diverti. E nel sesso l’ultima cosa a cui dovresti tendere è l’adrenalina. L’ho imparato presto.

Come è arrivato a essere Rocco Siffredi?
Seguendo un’ispirazione. Da adolescente trovavo sul ciglio della strada i giornali porno buttati dai camionisti. Strappavo le pagine sopravvissute all’uso e le portavo nello scantinato di casa mia per sfogare la fantasia con la mia bella sega giornaliera. Avevo 13 anni. A 16 ho chiesto a mio fratello che lavorava in Francia se conosceva qualcuno nell’ambiente, a 20 ho iniziato.

Le presentarono Gabriel Pontello, notissimo attore porno.
Pontello era l’eroe dei miei fotoromanzi erotici preferiti. Da ragazzino lo vedevo agitarsi con rosse, more e bionde sulle pagine di Erotik e Supersex e mi dicevo: ‘Dov’è questo mondo? Come faccio a raggiungerlo anch’io?’. Me lo presentò Denise, una matura parigina che mi trattava come un cucciolo e a cui avevo chiesto di portarmi in un locale di scambisti, il 106. All’epoca del più scatenato libertinage, con lo spettro dell’Hiv ancora lontano, da Aznavour a Depardieu le star venivano a scopare in allegria al 106. Ero single e i single di norma non li facevano entrare. Così venni utilizzato per qualche mese come scaldacoppie e gettato tra i divani completamente nudo per stimolare l’atmosfera.

Chiese a Pontello di lavorare?
Per me Pontello non era un’occasione, ma l’occasione. Denise gli aveva già parlato di me: ‘Tu saresti l’italiano con il cazzo enorme? Fammi vedere cosa sai fare’. Mi ritrovai su un set a Monrouge, vestito da Adamo, con una foglia di vite lì proprio lì. Vidi Platinette nei panni di Eva e mi venne durissimo. Prima di quelli spinti, avremmo dovuto fare alcuni scatti soft, ma in quelle condizioni era impossibile. Pontello rideva: ‘Mi sa che qui abbiamo un problema diverso dal solito. Rocco, ma lo capisci che vuol dire moscio?’. Io gli chiedevo: ‘Ma come si fa a farlo scendere?’, perché per me stare con una donna nuda a vent’anni senza erezione era inconcepibile. Facemmo 4 giorni di foto a Monrouge e al quinto, grazie alla raccomandazione di Pontello: ‘Ho trovato un nuovo attore, è giovane, bello, italiano e ce l’ha grossissimo, lo proveresti?’, mi ritrovai con Marc Dorcel e Michel Ricaud sul set del mio primo film, Belle d’amour. Dorcel, personaggio incredibile e collezionista complusivo di Ferrari partito da un piccolo sexy shop a Parigi, era un produttore importante.

Dorcel le diede una chance?
Mi aveva dato una sola scena da interpretare. Dovevo aprire la porta di un meraviglioso appartamento parigino nel XVI arrondissement e pronunciare poche battute. Ma appena entrato, vidi le attrici francesi e austriache in lingerie e tacchi a spillo e persi la testa. Erano fiche pazzesche e il cervello andò in ebollizione. Era come se tutti i lunghi anni di masturbazione nello scantinato di Ortona e le seghe a milioni che mi ero fatto si fossero materializzati all’improvviso. Mi sentii in paradiso e mi dissi: ‘Morirò qui’. Temendo il peggio mi chiusi in bagno per toccarmi, ma fu inutile. Una volta in scena venni in meno di 2 minuti. Ricaud provocava: ‘Non vale niente’. Dorcel era furibondo. Ripeteva: ‘Mi hai rovinato il film’ e intanto investiva Pontello al telefono: ‘Ma chi mi hai mandato? E questo sarebbe lo stallone italiano? È un dilettante’.

Lei era tale.
Dalla fantasia di un giornaletto ero passato a un mondo in movimento. Non c’era più una fotografia fissa, era tutto vero. Veri i mugolii, vere le cosce, vero il pelo. Non ci capii niente, incassai senza fiatare gli insulti di Pontello: ‘Mi hai fatto fare una figura di merda’ e pregai Dorcel di concedermi un’altra opportunità: ‘Vediamo stasera – rispose – ma solo se non finisco troppo tardi’. Cercai di calmarmi, scesi alla brasserie per bere 4 camomille e quando perdonato tornai sul set, finalmente, ogni cosa andò per il verso giusto. All’epoca la bellezza non era dirimente. Potevi essere brutto e grasso, ma ti si doveva drizzare. Solo quello contava. Sono stato fortunato.

Lei parla della sua vita con normalità.
Diventare un attore porno mi ha messo dal lato opposto della barricata. Nel territorio dell’anormalità, nonostante consideri la normalità un concetto totalmente astratto e mi sia sempre sentito molto normale.

Per anni il suo nome è stato anticipato dalle sue misure.
La mia persona creava imbarazzo, salutarmi creava imbarazzo, persino pronunciare il mio nome creava imbarazzo. Io capivo. Non ne ho mai sofferto. Ci convivo da trent’anni.

Il porno è triste per definizione?
Quando vedono un porno, le persone restano sconcertate. La gente si aggroviglia senza chiedersi perché e per come, non c’è delicatezza, l’approccio è meccanico e teatrale perché la pornografia contemporanea è soprattutto performance e avventura estrema che incuriosisce, ma che nessuno vorrebbe veramente provare nella realtà. Ho visto documentari e film in cui il porno è regolarmente rappresentato con tonalità mestissime. Ma il mondo del porno non è triste, è solo molto complicato. Non è il paese dei balocchi, è diverso da come ce lo si immagina e per chi ci lavora, lo scarto tra pensiero e pratica può essere fatale. Ho conosciute donne traumatizzate e ragazzi che si sono sparati, ma anche tanta altra gente che sta bene, che si è divertita e che oggi magari fa altro perché ha deciso che ne aveva abbastanza.

Il porno l’ha resa felice?
Affermarmi nel porno era l’obiettivo della mia vita e quindi sì, riuscirci mi ha reso felice.

Come ha fatto a resistere per tanti anni?
Creandomi un mio ambiente di lavoro, sperimentando, divertendomi a costruire mondi, parodie, frontiere. Io ho lavorato con tutti. Con le stronze, le simpatiche e le ninfomani. Con i produttori psicopatici, con gli autentici artisti come John Leslie – per cui ricevetti i complimenti anche da Quentin Tarantino – e con le autentiche sòle. Sono stato attento a non farmi influenzare, ho cercato di assorbire il meccanismo senza che il meccanismo mi assorbisse completamente, mi sono fatto scivolare addosso le cose negative.

Aveva i suoi nemici?
Dalle attrici che volevano farmi fallire: ‘A Rocco oggi lo facciamo diventare moscio’, ai colleghi americani che pur di vedermi crollare telefonavano ai produttori spacciandosi per me: ‘Sono Rocco, ho trasmesso l’Aids a mia moglie e ai miei figli, mi voglio suicidare’. I produttori mi chiamavano a notte fonda: ‘Rocco, non lo fare, per l’amor di dio’. E io, allucinato: ‘Ma non fare che cosa?’.

Se non fosse stato Siffredi chi sarebbe stato?
Forse un impiegato. Per avere il posto fisso alla Sip ho passato notti e notti a studiare: ‘Se hai i voti alti tuo zio ti fa entrare nella società dei telefoni’. Poi ottenni il diploma, ma lo zio si diede, scappò ed evaporò con le sue promesse. Un lavoro dovevo pur farlo, il sesso mi piace e sono stato con più di 5.000 donne, ma ho fatto un’analisi profonda su me stesso, ho acquisito tante consapevolezze e nonostante io non possa vivere senza sesso, ancora oggi so di avere qualche senso di colpa nei confronti di mia moglie. Stare con lei e avere i nostri figli è stato il mio film migliore in assoluto. Rosza è molto intelligente e non è gelosa del set. Lo conosce, sa che nel porno i sentimenti non esistono e che alla fine si tratta solo di carne in primo piano.

Che ricordo ha di Moana?
La vidi un mese prima che morisse, divorata dal tumore, mentre con grandi occhiali scuri si faceva sorreggere per non cadere. Pesava 40 chili. Con Moana c’era una bellissima amicizia. Era educata e sensibile, in fondo molto triste. Mi sceglieva come partner perché sosteneva avessi l’aria del bravo ragazzo. Nel mondo del porno, Moana si è sempre sentita un pesce fuor d’acqua. Quando giravamo non stava mai con gli altri attori né con le troupe in cui era pieno di cialtroni e maestranze che millantavano una ridicola distanza: ‘Io di solito faccio il cinema normale, sto qui solo per arrotondare’. Moana era diversa, era di un’altra pasta, ma essere attrici porno in Italia equivaleva comunque a una maledizione. Quando si formavano i capannelli in mezzo alla strada e la gente le gridava: ‘Sei la nostra troia’ io c’ero. Non erano cose semplici da sopportare.

Moana fu lanciata da Riccardo Schicchi.
Grande uomo d’affari, la persona che più ha dato al porno italiano. Aveva il bronzo tra le mani e lo vendeva come oro. Aveva il vetro e lo faceva passare per diamante. Le pornostar italiane erano mediocri. Quando andammo in America, Moana si aggirava turbata tra Tracey Adams e Britt Morgan: ‘Ma come fanno? Sono carrarmati, io non sarò mai così’. ‘Sono pornostar – rispondevo – vere pornostar’. Sembrava una battuta, ma in realtà ero serio.

In una bella intervista di Teresa Ciabatti lei affrontò il rapporto con suo padre.
Da giovane faceva il cantoniere. Entrava nelle case e con la scusa del lavoro circuiva tutte le vedova della zona. Dopo un’infanzia a base di divieti e proibizioni, in tarda età, mio padre mi parlò di sesso in assoluta libertà. Gli davo consigli in tema. Ero diventato il suo sessuologo.

Siffredi ride spesso.
L’ironia è stata fondamentale. Nonostante il dottor Olivaris mi dicesse sempre: ‘Ti sei votato al porno, farai una vita da dannato’, non ho mai toccato un antidepressivo in 51 anni.

 

Da Il Fatto Quotidiano del 06/03/2016