“Cittadinanza Digitale” è un progetto per le scuole che vuole informare sull’uso consapevole e i rischi derivanti dall’abuso della rete. E’ una bella idea. Conosco l’argomento, decido di andare. L’incontro è condotto da due giovani psicologhe molto preparate sulla lettura delle slide alle loro spalle. Snocciolano concetti, terminologia professionale, definizioni 2.0 della società odierna. Compitino, mai fuori dagli appunti, non un affondo sul protagonista di questa storia: il genitore. La prima ora trascorre parlando dei ragazzi (bambini? non emergono distinzioni di età, tutto è un raccontone didascalico che fa minestrone a pezzettoni): i “nativi digitali”, quelli nati dopo la fine degli anni ottanta, sono frutto di un download, apparsi all’improvviso. Le psicologhe si concentrano su protagonisti che in realtà sono messi in secondo piano, forzati lì da interpreti principali che scelgono di essere comparse: i genitori. E’ come se mancasse il coraggio (la consapevolezza? ancora?? sì, ancora) di dichiarare apertamente l’assenza crescente della figura genitoriale, quasi aleggiasse il timore di offendere i presenti richiamandoli alla loro responsabilità fondamentale: educare.
Ma a dar man forte alle due conduttrici è la maggior parte stessa dei presenti, che chiede apertamente un maggior impegno da parte della scuola, come luogo centrale dell’educazione e formazione dei figli (mi sorprende che nessuno abbia ancora chiesto alla scuola di passargli gli alimenti), che la scuola faccia di più. Assisto a una richiesta precisa: delegare l’educazione dei nostri figli.
Le psicologhe ormai assistono alla discussione senza nemmeno moderare, apertamente in difficoltà se una domanda esula dalle risposte scritte nelle slide, preparate sulla statistica del bambino/ragazzo, ma vuote di denuncia sul genitore dalla ludopatia cellulare facile. Mi accorgo di come l’argomento che stiamo trattando sia ancora sconosciuto e sottovalutato e come la maggior parte dei genitori lo ignori esattamente come ignora che non va delegato ad altri quello che dovrebbe essere diritto e dovere di ciò che si chiama e dovrebbe essere famiglia.
Ciò che accade con internet e social non è una novità, semmai amplifica quello che è sempre esistito e la facilità d’uso (e abuso) rende tutto molto più veloce. Per quanto l’incontro sia un segnale e, spero, un inizio non una parola sulle dipendenze alle nuove teconologie, non una parola sul fatto che questa dipendenza ha un nome, non un’accusa alla famiglia che ha abdicato (troppo spesso) allo smartphone come prima abdicava al dvd: toh, guarda qui e non rompere.
Decido di fare una domanda, che è una richiesta esplicita “Potete rincarare la dose sul nostro ruolo di genitori che sta dando un pessimo esempio? Per esempio postando ostinatamente foto dei nostri figli sui social”? La timida dottoressa risponde ripetendo la mia domanda, come chi non la sa ma parla per riempire un vuoto. Aggiungo “Posso chiederle di dichiarare apertamente che stiamo sbagliando”? Sorriso imbarazzato, sorrisi in sala, slide, off line, ciao.
I figli non sono un’App da scaricare e nemmeno una start-up. Sono nati prima dei problemi che gli abbiamo creato e se non c’eravamo allora proviamo ad esserci adesso. Ma fermalo tu un treno in corsa…