Nemo propheta in patria, recita l’antico motto latino…

L’Economist ha recentemente dedicato un articolo ai giovani direttori d’orchestra italiani che stanno facendo furore in giro per il mondo: Giacomo Sagripanti, Michele Mariotti, Pier Giorgio Morandi, Daniele Calligari… Ma in Italia, per l’opera in particolare, è un vero disastro, con teatri in perdita, produzioni cancellate e direttori pagati in ritardo.

La fuga dei talenti non è certo una novità, così come non lo è il riconoscimento che all’estero molti dei nostri musicisti riscuotono da sempre. Basti pensare al caso emblematico di Riccardo Muti, alla guida della Chicago Symphony Orchestra dal 2010; a Gianandrea Noseda, già direttore del Teatro Regio di Torino, recentemente nominato alla direzione musicale della Washington’s National Symphony Orchestra; a Corrado Rovaris, direttore della Philadelphia Opera dal 2005; a Nicola Luisotti, già direttore al San Carlo di Napoli, alla testa della San Francisco Opera dal 2009; a Fabio Luisi, direttore musicale dell’Opera di Zurigo e conductor presso la New York Metropolitan Opera.

Gli addetti ai lavori, il pubblico abituato alla musica sinfonica, conoscono bene la centralità della figura del direttore d’orchestra. In anni di lavoro, dibattiti, lezioni e mail ricevute sull’argomento, ho però maturato la convinzione che per il grande pubblico, il ruolo di questa figura professionale, rimanga sostanzialmente avvolto nel mistero. Se da un lato infatti, quasi tutti sono ormai rispettosamente propensi ad ammettere l’importanza di questo compito, dall’altra capita sempre più spesso di imbattersi in discussioni dove sono le modalità di questo apporto creativo ed autoriale a rimanere quasi del tutto oscure. Senza alcuna pretesa di esaustività, propongo alcuni degli aspetti intorno ai quali si raccolgono generalmente i maggiori dubbi.

1 Spesso si dice che un grande direttore, è tale anche perché lavora solo con grandi orchestre; considerazione dalla quale scaturisce specularmente la convinzione che un direttore di alto profilo, alle prese con un’orchestra modesta, avrebbe sostanzialmente le ali tarpate.
2 Parallelamente, molti sostengono che le grandissime orchestre internazionali in fondo, suonino a perfezione chiunque salga sul podio.
3 Inoltre, si tende a non considerare mai che diversi repertori musicali, barocco, classico, romantico, contemporaneo, richiedono di fatto competenze e sensibilità differenti.
4 Molti si chiedono inoltre, come sia possibile che nel gesto di un direttore, così diverso per altro da un interprete all’altro, possano essere codificate così tante raffinate informazioni da trasmettere agli orchestrali.

In merito al primo punto, non conosco esempio migliore del video che ritrae il grande Leonard Bernstein alle prese con un’orchestra di ragazzi molto giovani intenti a provare La Sagra della Primavera di Igor Stravinskij. Un esempio magistrale di come un grande direttore sia in grado di ottenere da un’orchestra per lo meno non espertissima, una performance di grandissima efficacia. È straordinario ammirare come la metamorfosi musicale avvenga soprattutto grazie alla parola, al grandissimo carisma del direttore, alla sua capacità poliedrica di imitare i suoni, ad un’incredibile capacità di evocare immagini in grado di trasmettere la sostanza più intima dell’opera ai musicisti. Un altro bellissimo esempio, sono certamente le famose Prove d’orchestra di Riccardo Muti. Sebbene in entrambi i casi, autorevolezza, carisma, capacità fascinatoria, siano presenti in abbondanza, è soprattutto la vasta cultura umanistica di base che, facendo da cassa di risonanza, contraddistingue quasi sempre i grandissimi interpreti, dagli ottimi direttori. Mi torna in mente il grande economista Federico Caffè, il quale era solito ricordare ai suoi studenti che senza aver letto Thomas Mann, non sarebbero mai diventati dei grandi economisti…

Circa il secondo punto, è ragionevole immaginare che i Berliner Philharmoniker, i Wiener Philharmoniker o la London Symphony Orchestra, siano in grado di offrire esecuzioni di altissimo livello a prescindere da chi li dirige. Spesso è così, soprattutto se si fa riferimento ad aspetti meramente tecnici; ma allora che dire di incisioni dello stesso brano (magari con la stessa orchestra) che dirette da maestri diversi, danno luogo ad oggetti musicali radicalmente differenti? Se ascoltiamo l’esecuzione dell’intermezzo sinfonico di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni diretta da Riccardo Muti, ci rendiamo immediatamente conto della totale differenza che esiste con la versione diretta dal maestro Herbert Von Karajan. Due mondi diversi: luminoso, solare, sanguigno e mediterraneo il primo; nebbioso, quasi spettrale, il secondo.

Se i direttori hanno caratteri diversi, e background culturali lontani tra loro, anche le orchestre possiedono diverse peculiarità estetico espressive. Segnalo l’interessantissimo documentario del regista Angelo Bozzolini, The Italian Character, che mostra chiaramente come le orchestre abbiano un naturale appeal con certi repertori piuttosto che altri; una sorta di predisposizione culturale a sentire nel profondo alcuni musicisti, piuttosto che altri.

Riguardo al terzo punto, direi che se è vero che diversi repertori richiedono abilità e sensibilità differenti, è pur vero che alcuni autori sono in grado di resistere ad interpretazioni modeste, altri invece, no. Una direzione della Sinfonia N°40 in Sol minore K550 di Mozart, per quanto scadente, difficilmente potrebbe stravolgere l’opera a tal punto da renderla irriconoscibile. Al contrario, una direzione poco consapevole del Parsifal di Wagner o dei circa venti minuti della Decima Sinfonia di Mahler, darebbe probabilmente luogo ad un oggetto musicale totalmente incomprensibile o tragicomico. Alcuni repertori, quello romantico mitteleuropeo in particolare, richiedono un’adesione filosofica ed una cultura di base condivisa, che non tutti riescono a fornire. Parafrasando Giorgio Albertazzi, potremmo dire che non tutti i brani musicali posseggono, come i versi di Dante, la capacità di resistere alle peggiori letture…

In merito al quarto ed ultimo punto, direi che anche per un pubblico esperto, credo sia davvero difficile capire come un insieme di gesti, per quanto complessi e codificati, possa contenere tutte le informazioni necessarie affinché l’orchestra riesca ad eseguire brani di grande difficoltà tecnico-espressiva, restituendo in tempo reale, tutte le sfumature richieste dal direttore. Come accettare che performance musicali, parimenti straordinarie ma molto diverse tra loro, siano il risultato di una modalità del gesto così diversa da direttore a direttore? Il gesto di George Solti è molto diverso da quello di Antonio Pappano, quello di Wilhelm Furtwängler differente da quello di Daniel Barenboim e così via… Se l’esecuzione dipendesse strutturalmente dal gesto, l’orchestra avrebbe bisogno di apprendere uno nuovo codice ad bacchettam ad ogni cambio della guardia… Non è quindi un caso, che solo nel tempo si creino grandi sodalizi tra orchestre e direttori.

A tal proposito, vorrei concludere con l’interessantissimo aneddoto raccontato dall’oboista Luca Vignali, ospite della trasmissione Cose di Musica (minuto 5.00 circa). Durante la sua prima prova in orchestra con il grande Wilhelm Furtwängler, il maestro di Vignali, Lotar Koch (primo oboe) gli disse: “Per i primi dieci minuti non suonare, fai finta…”. Dopo poco, l’oboista italiano, capì la natura affettuosa del consiglio del suo maestro: il gesto di Furtwängler era tremendamente in anticipo, cosa a cui, naturalmente, gli orchestrali che lo seguivano da anni erano più che abituati…

 

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