Il dato politico è talmente lampante da essere chiaro a tutti, tranne che ai vertici del Partito democratico: alle primarie 2016 del Pd è andata a votare la metà dei romani che si era mossa per votare Ignazio Marino nel 2013. Ora, hai voglia a dire, come ha già fatto il vicesegretario Guerini, che è un “un buon risultato considerata anche la situazione da cui partivamo” e “una vittoria del Pd”. La realtà racconta l’esatto contrario: l’affluenza è stata dimezzata e la fiducia dei romani è stata abbattuta dallo scandalo di Mafia Capitale, nel cui trogolo esponenti del Pd sguazzavano a braccetto con gli (ex) fascisti amici di Alemanno, dalle tante lacune e omissioni dell’amministrazione guidata dal chirurgo, ma anche dell’assedio che il partito ha stretto attorno al suo sindaco per i due lunghi anni e mezzo in cui quest’ultimo è riuscito a rimanere seduto al Campidoglio e dal cannoneggiamento finale cui lo ha sottoposto prima di buttarlo giù, lasciando senza una guida una città che cammina quotidianamente sull’orlo del caos. Risultato: 47mila voti contro i 100mila del 2013, 3.709 tra schede bianche e nulle, quasi il 10%. Tecnicamente si chiama flop e tanto dovrebbe bastare ai vertici del Nazareno per evitare di esultare senza motivo.
Ma le radici della débacle non affondano solo nel recente passato. Per quale motivo i romani avrebbero dovuto accorrere in massa a scegliere il candidato del Pd? Il nome di maggior appeal era quello di Roberto Giachetti, brava persona, ma più o meno un signor nessuno per l’elettore medio se non fosse per la nomina alla vicepresidenza della Camera arrivata in virtù della sua ortodossia al dettame renziano e in quello capitolino per la militanza come numero due di Francesco Rutelli sindaco, ormai un paio di ere geologiche fa. Eppure così convinto della bontà del metodo renziano da annunciare, nella conferenza stampa seguita alla vittoria, che “in Giunta con me porterò solo persone competenti ed appassionate che presenterò alla città quindici giorni prima del voto. Se a qualcuno questo metodo non piace, la porta è quella là“, come se la squadra di governo non fosse importante e i romani non avessero diritto a conoscerla con sufficiente anticipo prima di decidere. Come non si stanca di ripetere Renzi a chi dissente.
Ma anche così poco persuaso della fattibilità dell’operazione da ritenere più conveniente non lasciare lo scranno a Montecitorio (“Io mi dimetterò nel momento in cui i romani dovessero decidere che sarò sindaco di Roma. Non vedo per quale ragione dovrei dimettermi dal Parlamento”, annunciava a gennaio: l’impresa è incerta, non si sa mai) e da dichiarare il 20 febbraio di non avere ancora un programma, ma solo perché “i programmi si costruiscono dopo le primarie“, interveniva in suo soccorso Matteo Orfini. Tanto Roma è una città così facile da gestire che si può andare anche a braccio.
Ma tant’è: al Pd serviva un candidato è Renzi ha scelto lui: buon curriculum, nessun processo o indagine a carico, civis romanus ma nello stesso tempo abbastanza lontano dalla palude della politica capitolina degli ultimi anni da apparire abbastanza homo novus e incarnare quella parvenza di rinnovamento che la narrazione renziana propone fin dagli esordi come panacea per tutti i mali.
Il problema è che quello di Giachetti era il nome più credibile e spendibile, in questa farsa che sono state le primarie del Pd a Roma. Perché oltre al vicepresidente della Camera, convinto da Matteo Renzi a correre per il Campidoglio dopo un pressing durato mesi, in corsa per la nomination non c’era nessuno. Nessuno.
E Roberto Morassut allora?, dirà qualcuno. Chi? Ah sì, l’ex PCI con la faccia da ragazzo di buona famiglia con un passato da assessore all’urbanistica di Walter Veltroni e un presente da deputato del quale in pochi si erano accorti prima che annunciasse di voler infilare i guantoni e fare da sparring partner al compagno di partito. E poi? Domenico Rossi, sottosegretario alla Difesa di Centro Democratico ed ex Scelta Civica (!), Stefano Pedica, ex Italia dei Valori riciclatosi in extremis nel Pd, Gianfranco Mascia, ex Popolo Viola e portavoce dei Verdi, e Chiara Ferraro, ragazza autistica di 24 anni candidata dal padre alle comunali del 2013 e ora alle primarie.
Candidature raccolte in una manciata di giorni dopo la discesa in campo di Giachetti, il predestinato cooptato dai piano alti attorno al quale montare un circo fatto di illustri più o meno sconosciuti, ma con un compito fondamentale: fare numero e conferire il crisma della credibilità alla corsa capitolina sponda dem. Un’avventura nella quale, tra le macerie ancora fumanti del dopo Mafia Capitale, nessuno tra le prime file democratiche ha avuto il cuore di infilarsi.
In confronto quelle di tre anni fa sembravano le primarie del Partito Democratico, ma quello americano. La competizione era avvenuta su un livello assai più elevato nella scala gerarchica del Nazareno: Ignazio Marino, piazzatosi al terzo posto pochi mesi prima alle primarie democratiche per la scelta del segretario nazionale dietro a Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, se l’era vista con Paolo Gentiloni, pezzo da novanta nel Pd romano e oggi ministro degli Esteri. Di caratura molto inferiore, ma c’era anche David Sassoli, volto del Tg1 ed europarlamentare. Una competizione molto più equilibrata, come testimoniano i risultati: Marino vinse con il 55% dei voti (che furono 102mila), davanti a Gentiloni al 28% e a Sassoli al 14%. Nulla a che vedere con il distacco siderale tra Giachetti (64,2%) Morassut (27,5%) e Domenico Rossi, terzo con un inesistente 3,3%.
Risultati di fronte ai quali, almeno per una volta, sarebbe gradito un mea culpa o almeno una presa di coscienza da parte dei vertici democratici. Qualcosa del tipo: “Scusate, l’affluenza ai seggi è crollata, il risultato è pessimo e la colpa è solo nostra. Proveremo a fare meglio e promettiamo tutto l’impegno di cui siamo capaci”. Invece no, avanti ad esultare per la “vittoria del Pd“. Che peccato: un’altra occasione persa per mostrare agli elettori il rispetto che meriterebbero.