Migranti Idomeni 675

Dopo l’approvazione dell’agenda Junker sull’immigrazione, i vertici tra gli stati membri dell’Unione europea e tra quest’ultima e i paesi terzi sono stati innumerevoli e convulsi.  Tutti convocati in nome dell’emergenza. “Tempi eccezionali richiedono misure straordinarie”, dichiarava Angela Merkel al vertice con i paesi balcanici del 25 ottobre scorso, chiedendo a tutti di posizionarsi sul terreno dell’emergenza. E, come si sa, l’emergenza richiede e legittima l’instaurazione dello stato d’eccezione. Il diritto in vigore diventa carta straccia. Le istituzioni preposte a garantire il suo esercizio non servono più. Schengen crea problemi? Via. La Convenzione di Ginevra riconosce diritti a ciascuno dei richiedenti asilo? Via. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo fa apparire illegittimi i respingimenti? Via, via. Senza troppe chiacchiere. Senza formalismi. Senza abrogare formalmente nulla. Senza alzare troppa polvere. Quello che conta è il fare. Modificare tutto attraverso la prassi è la via più facile, più comoda, quella che si insinua in modo più capillare, che non provoca proteste diffuse.

E così, di summit in summit, di vertice in vertice, di emergenza in emergenza, il governo delle migrazioni internazionali è diventato qualcosa che si fonda sull’informalità, sull’abbandono dei trattati con legally binding rules, sull’esercizio del potere attraverso forme para-normative, sul principio del just in time. I vertici tra stati non sono fonti di diritto pubblico. Sono vertici, appunto, non parlamenti. Gli eventuali accordi siglati devono essere ratificati dai parlamenti prima di assurgere al rango di fonte giuridica. Altrimenti, restano eventi da inserire nei libri di storia, e basta. Può dirsi lo stesso anche dei Consigli dell’Unione europea. Per quanto il Trattato di Lisbona abbia formalmente incluso il Consiglio tra le istituzioni dell’Unione, questo resta sempre un’entità non riconducibile a qualsiasi categoria giuridica. Più che un’istituzione, in senso giuridico, esso si configura come un locus of power, un luogo in cui si esercita il potere, e basta. Le decisioni ivi assunte non sono, infatti, fonte di diritto dell’Unione europea. Il Consiglio non emana né direttive né regolamenti.

Eppure, a partire dall’estate scorsa, assistiamo a questo progressivo sdrucciolamento dallo stato di diritto allo stato di eccezione, dalle sedi istituzionali legittime ai locus of power. Senza suscitare scandali. In nome dell’emergenza. Ma è la forma, si dirà. Che c’importa della forma? Conta la sostanza. Nel diritto la forma è sostanza. E difatti, se si guarda alla sostanza, cosa si vede? Una metodica, sistematica e quotidiana violazione dei diritti degli emigranti, dei richiedenti asilo e rifugiati: violazione di tutti i trattati internazionali e europei; violazione degli ordinamenti nazionali; chiusura arbitraria delle frontiere; respingimenti collettivi; negazione dell’accesso alla protezione; mancanza di informazione sui diritti; rilevamento forzato delle impronte digitali; selezione a occhio nudo (prima facies) dei meritevoli di protezione da quelli non meritevoli (ovvero i cosiddetti “immigrati economici”);  invenzione di inesistenti categorie giuridiche (richiedenti protezione “in clear need of protection” da distinguere da quelli, assai banali, “in need of protection”); restrizione arbitraria della libertà personale; costruzione di luoghi di trattenimento e di selezione, senza alcuna copertura giuridica, ovvero i cosiddetti hotspot.

A proposito di hotspot, sapete come sono entrati a far parte dell’ordinamento italiano? Con una semplice circolare del ministero dell’Interno (n. 14106 del 6 ottobre 2015). E una circolare amministrativa non vale nulla, da un punto di vista giuridico. E sapete a quali norme dell’ordinamento italiano si richiama la circolare? Quali articoli di legge cita nel suo testo per legittimarsi? Nessuno. E non a caso: non esiste nell’ordinamento italiano una norma che definisca gli hotspot, che spieghi a cosa servono, che stabilisca i diritti delle persone che vi soggiornano e i doveri di coloro che vi lavorano (a proposito: su che basi giuridiche fanno gli affidamenti o gli appalti per la gestione degli hotspot?). In compenso, però, la soprammenzionata circolare spiega che la nascita degli hotspot in Italia è stata decisa dal Consiglio europeo. Ciò, secondo il ministero, dovrebbe bastare e avanzare come base giuridica.

Cioè, le decisioni sui diritti e sulla vita di milioni di persone in cerca di protezione, vengono assunte dai locus of power, europei o nazionali, in violazione delle più elementari regole del diritto. E noi, così come gli immigrati, dovremmo accontentarci dei cerimoniali, delle strette di mano, delle fotografie di gruppo, delle conferenze stampa, dei “discorsi storici” per sentirci in qualche modo partecipi del processo. E, perché no, persino contenti di lasciare nelle mani degli uomini del fare, che se ne infischiano anche delle minime regole, la soluzione dei problemi. Soluzione che, a quanto pare, come avviene in ogni scontro tra bande che vivono una crisi economica senza fine, tarda ad arrivare. Si passa di ricatto in ricatto (voglio 3 miliardi, no ora ne voglio 6; non ti do la mia quota se non mi consenti di alzare il deficit e… così via), di braccio di ferro in braccio di ferro, di bottino in bottino, lasciando le vite di migliaia di persone appese a un filo, costringendole oggettivamente a entrare e soggiornare illegalmente. In fondo, è esattamente così che le vogliono le imprese: illegali, ricattabili, precarie.

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