Il testo approderà al Consiglio dei ministri francese solo il prossimo 24 marzo, ma le mobilitazioni contro la legge sono già partite
Facilitare i licenziamenti, ridurre i ricorsi davanti al giudice, aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Anche la Francia si appresta a varare la sua riforma del Codice del lavoro: in Italia c’è chi l’ha già ribattezzata il “Jobs act alla francese”, a causa dei diversi punti di contatto con la legge targata Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Ma non mancano le differenze: i francesi stanno cercando di tutelare il dipendente dal bombardamento di mail lavorative e dal rischio di perdere diritti sociali insieme al posto di lavoro. E la nostra riforma del lavoro in questo senso sembra essere inerte, se non andare nella direzione opposta. Il testo approderà al Consiglio dei ministri francese solo il prossimo 24 marzo, ma le mobilitazioni contro la norma sono già partite. Il 9 marzo a Parigi si tiene una grande manifestazione nazionale contro il progetto del governo, forte di una petizione che ha già superato il milione di firme per fermare la legge. “La riforma francese risponde alle stesse esigenze di quella italiana, cioè una liberalizzazione del mercato del lavoro e una maggiore libertà nei licenziamenti – spiega Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico del centro studi Adapt – Ma si differenzia dal Jobs act soprattutto per la maggiore apertura alle parti sociali e per l’importanza data alla contrattazione collettiva”.
Licenziamenti più facili, dunque. Se in Italia il mantra era abolire la reintegrazione del lavoratore, in Francia non era questo il tema del dibattito, in quanto il ritorno al lavoro era già obbligatorio solo in caso di discriminazione. D’altra parte, il progetto di legge francese amplia il ventaglio di causali per giustificare i licenziamenti di tipo economico: si parla di momenti di difficoltà come un calo degli ordini o vendite per diversi trimestri consecutivi e perdite di esercizio per diversi mesi, ma anche di trasferimenti di tecnologia o riorganizzazione aziendale necessaria per salvaguardare la sua competitività. Inoltre, in caso di licenziamento illegittimo, se finora l’importo dell’indennità era deciso in autonomia dal giudice, a partire dai sei mesi di stipendio e senza un tetto massimo, ora la legge intende porre dei limiti sia alla discrezione dei magistrati sia all’ammontare dell’assegno: le indennità andranno da tre a quindici mensilità, in base all’anzianità di servizio del lavoratore. “Come nel Job act – spiega il professor Tiraboschi – l’obiettivo è di togliere spazi di incertezza interpretativa nel codice del lavoro, che dà molto potere al giudice di decidere se un licenziamento è legittimo o meno. E poi c’è anche l’idea di rendere il licenziamento meno costoso per l’azienda”.
Inoltre, la riforma francese spingerà l’acceleratore sulla contrattazione di secondo livello, aziendale e individuale. Se oggi un dipendente non può lavorare più di 10 ore al giorno, con la contrattazione collettiva potranno arrivare a dodici. E se la settimana media segue il modello delle 35 ore medie, con un massimo di 48, dopo la riforma si potrà arrivare fino a un massimo di 60, in casi eccezionali. Cambierà anche il regime degli straordinari. Rimane il minimo del 10% di retribuzione in più, ma gli imprenditori avranno maggiore libertà ad abbassare l’importo fino a questa soglia, sempre attraverso accordi sindacali. E ancora, si apre alla possibilità di stringere accordi espansivi, per sviluppare il lavoro, e di validare le intese attraverso referendum all’interno delle aziende. La spinta ai contratti decentrati non è compresa nel pacchetto del Jobs act italiano, ma quella è la direzione segnata: sindacati e Confindustria dovranno trovare un accordo per riformare la contrattazione, altrimenti agirà il governo con una legge. “Ma finora il governo italiano – puntualizza Tiraboschi – è intervenuto prescindendo dalla contrattazione collettiva, considerando il sindacato solo un impiccio, un elemento negativo. In Francia, invece, il dialogo sociale è considerato un valore”.
Ma il testo francese si differenzia dal nostro Jobs act anche per l’idea del cosiddetto “conto personale di attività”. “Quando si cambia lavoro – prosegue il giuslavorista – capita spesso di perdere diritti assistenziali, previdenziali, sanitari. Il progetto francese, benché non ancora definito, è di creare un conto personale in grado di trasferire questi diritti acquisiti da un posto di lavoro all’altro”. Nel Jobs act, invece, il sostegno a chi perde l’occupazione passa attraverso l’Anpal, l’Agenzia nazionale per il lavoro, e i percorsi dei centri per l’impiego, un disegno che a un anno dalla riforma rimane ancora al palo nella sua attuazione.
Infine, le riforme italiana e francese divergono nel diverso approccio al tema dei controlli. Se in Italia il Jobs act ha permesso all’impresa di monitorare gli strumenti elettronici (pc, tablet, smartphone aziendali) usati dal dipendente, il progetto di legge francese va in direzione opposta. L’idea del governo è di salvaguardare diritto alla disconnessione, cioè la garanzia di non essere subissati di mail lavorative all’infuori dell’orario prestabilito. E il professor Tiraboschi sottolinea un’altra differenza a livello di metodo: “Il progetto francese è stato a lungo discusso da esperti e parti sociali, attraverso la produzione di rapporti sui vari temi. Questo ragionamento e questa riflessione non li ho visti in Italia. Nel Jobs act, all’improvviso sono comparsi una legge delega e dei decreti attuativi scritti a tavolino”.