In futuro non lavorerà nessuno. O quasi. E’ fondamentalmente su questa irreversibile tendenza che dovrebbe concentrarsi il dibattito politico ed economico di questi anni, anziché stare a tessere le lodi di un dirigente pubblico che sta in ufficio fino alle undici di sera.
L’apologia dello stacanovismo, che ha gioiosamente ricompattato in un unico e penoso abbraccio il nostro premier e la ritrovata responsabilità civica di un organismo ormai perfettamente inutile come il sindacato, è esilarante prima ancora che anacronistica. Celebrare l’abnegazione professionale nel bel mezzo di una fase storica contraddistinta da una produttività del lavoro mai così alta e, di un conseguenza, da un tasso di disoccupazione giovanile mai così drammatico, è un’operazione storicamente scorretta e affetta da una gravissima miopia politica.
I workaholics (drogati di lavoro) sono sempre esistiti e non staremo certo qui a disquisire adesso su questa patologia. Ma è altrettanto certo che quasi sempre il workaholism genera effetti collaterali incontrollabili, che si riflettono sull’intero ambiente di lavoro circostante, quasi sempre popolato da collaboratori che non necessariamente smaniano dalla voglia di rispondere a una mail alle due di notte.
A onor del vero, il workaholism non riguarda solo le posizioni di vertice, ma molto spesso contagia anche la “truppa”, illudendola che l’abnegazione professionale si traduca poi sempre in un’accelerazione dei percorsi di carriera. Senza troppi giri di parole, è la vecchia storia del bastone e della carota. Che, in periodi di magra come questo, rende di fatto la carota sempre meno essenziale. Da qui, altri due effetti collaterali che vale la pena di considerare. Da un lato, la radicalizzazione della concezione di lavoro come fine della propria esistenza e non come mezzo per renderla godibile, il che si traduce in una dinamica dell’assunzione di psicofarmaci a dir poco vertiginosa: a partire dal 2000, l’incremento medio annuo nella somministrazione di farmaci psicotropi è stata del +5,3% nelle economie “sviluppate”, del +6,7% in Italia e del +7,4% nella “avanzatissima” Germania (dati Ocse). Dall’altro lato, assistiamo alla degenerazione di questo fenomeno, che da diversi anni ha per esempio portato il Giappone a introdurre nelle statistiche sulle cause di morte della popolazione la “morte per eccesso di lavoro” (karoshi), trattandosi di un fenomeno sociale che ha assunto proporzioni ormai allarmanti. Poco male, si dirà: sono in tanti. Curioso poi che, sempre in Giappone, da qualche mese sia accesissimo il dibattito sull’opportunità di abolire definitivamente dalle università gli studi umanistici, in quanto allontanerebbero inutilmente l’ambitissimo homo oeconomicus dalla sua vocazione forzosamente meccanicistico-tecnicistica, nell’ossequioso rispetto del sacro dogma della produttività ad ogni costo.
Come opportunamente ricorda Joseph Stiglitz, la produttività del lavoro è aumentata negli ultimi quarant’anni a un ritmo assai superiore rispetto a quello dei salari reali: è infatti sotto gli occhi di tutti come ormai ci sia sempre meno bisogno di manodopera umana per generare quel fabbisogno di beni e servizi necessari a sedare i bisogni – fittizi e artatamente compulsivi – delle popolazioni “civilizzate”. Da sempre, il capitalismo è fisiologicamente strutturato sull’induzione sociale di bisogni precedentemente inesistenti e, in seconda istanza, sull’erosione sistematica delle risorse ecosistemiche messe al servizio di un progresso tecnologico sempre più agguerrito e asservito al mercato, proprio per soddisfare quei bisogni. Siamo ora entrati in una fase in cui abbiamo praticamente già tutto quello che ci occorre e, soprattutto, tutto questo può essere prodotto riducendo al minimo l’apporto umano. Se solo oggi studiosi come Rifkin argomentano una società a costi marginali tendenti a zero, introducendo la figura sociale del prosumer – persone che al tempo stesso producono e consumano beni e servizi, abbattendone il valore monetario di scambio – solo trent’anni fa un visionario come Oswald von Nell-Breuning teorizzava, in anticipo su molti altri, che in un futuro non troppo lontano sarebbe bastato un giorno di lavoro alla settimana: “Con la crescente produttività del lavoro, le professioni, come vengono concepite oggi, diventeranno un’occupazione secondaria. E l’attività di essere marito della propria moglie, moglie del proprio marito e madri e padri dei propri figli, e persone che si interessano di questioni pubbliche – insomma tutto ciò che prima era privilegio dei notabili – sarà ciò che darà senso alla vita delle persone, mentre l’acquisizione dei beni necessari a mantenere, arricchire e abbellire la vita passerà in secondo piano.” (L’uomo lavora troppo? 1985)
Di fronte a un simile cataclisma sociale, non possiamo certo aspettarci dalla politica risposte che vadano appunto al di là del tweet celebrativo di un rettore museale che spegne la luce per ultimo, o al di là delle recenti dichiarazioni del ministro Poletti, in base a cui gli studenti farebbero bene a non preoccuparsi troppo del voto di laurea, ma… “si dessero piuttosto una mossa” a entrare nel mondo del lavoro, questi fancazzisti bamboccioni e per giunta choosy…!
Lo scenario è strutturalmente contradditorio. Come tento di argomentare nel mio piccolo libro, tra il dogma del mercato e l’inconsistenza della politica, si insinua di prepotenza il ruolo della tecnologia, che spinge a favore del primo, declassando l’utilità sociale della seconda. Tutto questo, mentre tutti noi ci troviamo inermi in mezzo a queste tre forze centrifughe. E’ all’interno di questo quadro, per certi aspetti sconfortante ma per altri assai stimolante, che si dovrebbe inserire un serio e sano dibattito sul reddito di cittadinanza, quale unico e ultimo appiglio gravitazionale ancora in grado di polarizzare queste tre componenti intorno a un unico centro, scongiurando l’altrimenti inevitabile implosione del paradigma capitalistico, e offrendo ai cittadini – che per parte loro si dovranno impegnare a ridurre significativamente la sbornia consumistica – la possibilità di restare inclusi in un modo di vita almeno dignitoso.