Le politiche monetarie sono state in questi anni l’unico vero antidoto per arginare la crisi. Un vuoto della politica colmato dall’attivismo dei banchieri centrali. Il settimanale The Economist si chiede se ai loro bazooka siano terminate le munizioni. L’economia globale prima ha goduto di bassi tassi d’interesse, poi dei quantitative easing e ora, da più parti, si avanza la necessità di una fase 3, segnata da provvedimenti che incoraggino a spendere.
La scelta di dicembre della banca centrale americana, la Federal Reserve, di ridurre il proprio protagonismo iniziando ad aumentare i tassi sembra già archiviata. Non si sta affermando alcun disallineamento nelle politiche monetarie, semmai va acuendosi una competizione tra svalutazioni monetarie a somma zero, dove non emerge alcun vincitore. Quelli che erano considerati provvedimenti non convenzionali sono diventati ormai più che convenzionali. Si va persino verso una stagione di tassi negativi generalizzati, destinata a creare più problemi che a risolverli.
Il tentativo degli Usa di sottrarsi a questo meccanismo, grazie a una pur modesta crescita nazionale, ha rafforzato il dollaro, facendo emergere nuovi segnali di sofferenza per l’economia a stelle e strisce, a partire dal suo manifatturiero. A ogni risultato al di sotto delle attese nell’economia reale Wall Street risaliva e il dollaro si indeboliva, in quanto si allontanava la fine della moneta facile. A complicare il quadro, il sensibile rallentamento dell’economia cinese, causato da eccesso di debito e di capacità produttiva, e il crollo del prezzo del petrolio.
Dentro tale instabilità le debolezze dell’Europa aumentano, dalle sofferenze bancarie ai debiti sovrani. I debiti, pubblici e privati, poi, in una fase di tendenziale deflazione diventano sempre più gravosi. Di fronte a una recrudescenza della crisi le classi dirigenti sembrano prive di idee su come uscirne. Sempre The Economist si domanda se non siano necessari “approcci radicali” per evitare una riedizione della recessione. Cioè si ammettono i limiti della moneta espansiva, ma al contempo si resta ancorati alla medesima logica, dilatandola. Il dibattito torna sul famoso helicopter money proposto nel 1969 da Milton Friedman, cioè la metafora del lancio di denaro da un elicottero per far ripartire consumi e investimenti, grazie ai quali ripartirà la crescita. Sulle colonne del Financial Times Martin Wolf ha sostenuto questa ipotesi affermando che non esistono soluzioni semplici per gli squilibri globali, ma solo palliativi. L’Helicopter money sarebbe uno di questi. Si pensa alla creazione di bond specifici per investire in opere pubbliche o al finanziamento diretto ai cittadini. Aumentare la moneta circolante in maniera ancor più decisa per far ripartire l’inflazione e poter così alleggerire il peso dei debiti. In alternativa si ipotizza una via fiscale per aumentare il denaro circolante. All’ultimo G20 di Shanghai entrambe le opzioni si contendevano il sipario.
Curioso che in Italia questo dibattito non appaia, se non nelle cronache economiche. Neppure a sinistra risulta essere argomento di riflessione. Nonostante a livello internazionale, specialmente nel mondo anglosassone, si vada affermando l’idea di un Quantitative easing for the people da contrapporre a quello in corso. Per il momento, infatti, si è tentato di salvare la finanza a mezzo della finanza, attraverso le sue stesse regole e potenzialità, senza preoccuparsi delle crescenti diseguaglianze e neppure della reale efficacia di taluni provvedimenti.
Il rischio ora è che anche la corretta istanza di aumentare consumi e investimenti finisca nel tritacarne economico-finanziario. Cioè che si taglino ulteriormente le tasse in maniera inversamente proporzionale alla ricchezza posseduta oppure si sostengano spese in infrastrutture faraoniche fini a se stesse, il cui unico valore aggiunto è nella fase di realizzazione finale. Insomma il rischio è che l’Helicopter money sviluppi, in sintonia con il suo inventore, una valenza aderente alle politiche neoliberiste degli ultimi decenni. Se poi non funzionerà, perché, come paventa Isabella Buffacchi sul Sole 24 ore, non incontrerà un mercato sottostante sano e florido, ma solo il deserto, sarà un ulteriore misura a vantaggio dei principali soggetti dell’economia contemporanea e il prezzo ricadrà comunque sulle spalle dei settori popolari e subalterni.
Il Qe for the people che abbiamo in mente, invece, risponde alla necessità di redistribuire la ricchezza nelle nostre società, un Qe che non deve essere sostitutivo dell’attuale Stato sociale, ma in grado di creare reddito aggiuntivo in modo permanente. Si tratta di incunearsi in questo dibattito con una campagna dal segno opposto, creando le condizione per un Qe for the people che abbia altre priorità e una diversa natura. Quando iniziamo a parlarne? Quando entreremo nel merito di queste proposte?
di Marco Bertorello e Christian Marazzi
da Il Fatto Quotidiano del 9 marzo 2016