“Il telefonino è la scatola nera delle nostre vite”: è una frase che potete ascoltare nel film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese e ne condensa il significato. Negli archivi dei nostri cellulari c’è ormai un intero mondo di relazioni, di sentimenti, emozioni, spesso o in gran parte celati ai propri partner, aggiungerei per fortuna. Non è difficile immaginare cosa potrebbe scatenarsi in loro se si desse un diritto d’accesso ai messaggi, al registro delle telefonate o alla stessa galleria di immagini.
Ormai si vive una doppia vita: quella cosiddetta reale, e quella mediata dal cellulare, cosiddetta virtuale. Quali sono i rapporti tra queste due vite?Fino a pochi decenni fa non era messa in dubbio la differenza tra vita reale e sua rappresentazione al punto che nessuno perdeva molto tempo a commentare le dicerie che nel cortile davanti casa si affastellavano sulla moglie di Turiddu (salvo qualche schioppettata risolutiva di Turiddu che comunque, anche se in forma violenta, aveva una sua sbrigatività) né queste ti inseguivano ovunque tu andassi con chiose, note a margine e aggiunte supplementari.
Oggi con la connessione perenne e universale risulta radicalmente modificata la gerarchia tra l’essere e il sembrare, tra la realtà e la sua rappresentazione, al punto che un genitore chiede al gestore la chiave di accesso del cellulare del figlio sedicenne morto per conoscerlo meglio attraverso appunto i suoi archivi telefonici.
Si dice: ma il problema non sono i cellulari, così come non è colpa dei coltelli se qualcuno ogni tanto invece di affettare con essi il pane infilza qualche gola. Non direi. Il mezzo, questo mezzo, non è neutrale, non è un puro strumento, ma detta anche qualche contenuto e crea contesti.
Immaginate questa scena: fine anni ottanta interno sera, una famiglia a tavola per cena. Squilla il telefono fisso, l’unico allora disponibile, qualcuno si alza va a rispondere e una voce dall’altra parte del filo dice: “Stai a vedé er pupone? Li famo neri”: il mezzo c’era, il telefono era lì, ma quel contenuto era impensabile, nasce col cellulare e la sua messaggistica.
Per farla breve, il cellulare ha cambiato le nostre vite e la grammatica delle nostre relazioni amorose, favorendo quelle pericolose.
Quando sei a casa con la tua compagna e magari la stai baciando e un segnale acustico ti avverte che qualcuno si vuole intromettere tra voi, non fai salti di gioia. Magari ti verrebbe voglia di saper chi sia e cosa vuole. Ma come si fa? Gli avvocati matrimonialisti affermano che va crescendo il numero delle coppie sfasciate dall’intrusione di contenuti veicolati dai cellulari.
Cosa fare? Come far coesistere l’esigenza della condivisione con quella della riservatezza quando i contenuti di quest’ultima diventano da marginali centrali nella vita di una persona?
Al tempo della guerra fredda Urss e Usa trovarono un accordo di coesistenza pacifica ma una delle condizioni fu che avrebbero potuto in ogni momento accedere alle basi missilistiche nemiche per controllarne l’attività. Non so quanti accessi reali vennero compiuti, ma il solo fatto che il patto li prevedesse avrà certamente favorito il mantenimento delle clausole pacifiche.
E’ questa una possibile strada da percorrere per una pacifica coesistenza di una coppia al tempo dello smartphone? Si supererebbe la diffidenza, ma si inquinerebbe la confidenza, si annienterebbe la fiducia. Troppi i costi.
Allora mostrare rispetto se non indifferenza verso quelle relazioni?
Sarebbe corretto politicamente, ma mortale sentimentalmente: la consistenza di queste relazioni digitali è tale da costituire un campo di esperienza e di orientamento così denso da rendere estraneo chi non ne partecipa e sconosciuta all’estraneo chi le vive. Alla fine la relazione reale viene inghiottita da quella virtuale e la coppia muore per quanti sforzi politicamente corretti si siano praticati o proprio in ragione di essi. Insomma, non c’è via d’uscita.