Per cambiare sesso all’anagrafe non è necessario sottoporsi a un intervento chirurgico, ma è sufficiente che vi sia la “modifica dei soli caratteri sessuali secondari” cioè quelli che “in età puberale, consentono di distinguere i maschi dalle femmine, come la distribuzione delle masse muscolari e della forza, dell’adipe, dei peli, della laringe e della voce, nonché delle mammelle”. Lo ha stabilito il Tribunale di Bari decidendo sulla storia di Alessia, il nuovo nome della protagonista 37enne di Bari che ha chiesto e ottenuto il via libera dei magistrati perché negli uffici comunali sia ufficialmente riconosciuto il suo nuovo genere femminile. Non è la prima sentenza dei giudici del capoluogo pugliese che autorizza il cambio di sesso prima dell’intervento chirurgico: era già successo nel dicembre 2015, quando i magistrati avevano consentito ad Andrea, 27 anni, di diventare uomo.
Questo caso, invece, è diverso. Una donna, residente nella provincia barese, con l’aiuto del suo legale, l’avvocato Flaviano Boccasini, è riuscita a dimostrare di aver cambiato sesso anche senza essersi sottoposta a intervento chirurgico, che al momento sarebbe “inopportuno e rischioso, rispetto al raggiungimento di un equilibrio nella vita sessuo-affettiva”. In questi anni – si legge nella sentenza – “si è già volontariamente sottoposta ad una semplice terapia ormonale femminilizzante” e, soprattutto, che “la percezione psicologica del proprio sesso è, certamente, quella femminile”. Alessia, quindi, è donna. A dimostrarlo non c’è solo il suo “sentire”, quella che i magistrati chiamano “autopercezione“, ma anche i cambiamenti del suo corpo rispetto alla età di crescita sessuale che ha portato alla scoperta non solo del suo orientamento sessuale, ma anche della sua ambizione di diventare una donna. Alessia, infatti, si è sottoposta a una terapia ormonale “femminilizzante” che ha consentito “il raggiungimento di un assetto dei caratteri secondari e dei valori ormonali, compatibile con un aspetto ed un quadro ormonale femminile”.
Questo ha permesso ai giudici di stabilire come “realizzato quell’adeguamento dell’aspetto fisico necessario, al fine di ritenere sussistente una modificazione dei caratteri sessuali” che hanno poi spiegato come Alessia abbia oggi “raggiunto un sufficiente equilibrio psicofisico ed una soddisfacente accettazione della propria condizione, mantenendo con continuità la motivazione a raggiungere ed a conservare un aspetto femminile”. Oltre che sotto l’aspetto estetico, e in parte anche fisico, per i magistrati anche e soprattutto “sotto il profilo psicologico, sussistono tutti gli elementi per ritenere che sia stata raggiunta la necessaria modificazione dei caratteri sessuali” che permettono ad Alessia di pretendere dagli uffici comunali la variazione del genere sui documenti anagrafici. Una decisione possibile anche grazie ad un’altra sentenza della Cassazione, che la scorsa estate ha stabilito con una sentenza che è consentito cambiare sesso all’anagrafe senza dover fare un’operazione chirurgica. Nella sentenza, la Suprema Corte sostiene che “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale”.
In questa vicenda, però, i giudici baresi hanno concordato che l’intervento è “per certi aspetti, addirittura sconsigliabile, per la sua potenziale attitudine a provocare una compromissione del mantenimento del ridetto equilibrio psicofisico”, ma più in generale che “tra i diritti personalissimi che costituiscono il patrimonio irretrattabile della persona umana” garantita dalla Costituzione “è senz’altro da annoverare anche il diritto all’identità personale, quale espressione della dignità del soggetto e del suo intangibile diritto ad essere riconosciuto nell’ambito sociale di riferimento per quello che il soggetto medesimo ‘sente’ di essere”. Insomma la tutela della dignità implica, necessariamente, “il rispetto dell’insieme dei valori di cui l’individuo è portatore, in modo tale da permettere all’individuo di vivere i predetti valori con la massima libertà” e non vi sono “interessi superiori da tutelare” che possano giustificare l’imposizione di un intervento chirurgico.