Cultura

Colin Ward, ‘Architettura del dissenso’: sulle forme e le pratiche alternative dello spazio urbano

WARD_ArchitetturaDelDissenso_COVER_altaNel 1975, in una conferenza tenuta al Garden Cities/New Town Forum di Welwyn Garden City, criticando gli esponenti di una certa cultura marxista rivoluzionaria, Colin Ward (1924-2010) sosteneva che “sono come quelli che pensano sia meglio che i poveri muoiano di fame negli slum perché così il giorno della rivoluzione arriverà più in fretta. A parte la nostra antipatia morale per questo modo di pensare, le cose non funzionano così”. Tutti i suoi scritti, tutta la sua vita di studioso militante, di architetto ed educatore, di giornalista e di professore (senza essere laureato), di sociologo e di urbanista, di economista e di osservatore delle abitudini e dei comportamenti umani, è improntata a questa convinzione, perché una “società anarchica, una società che si organizza senza autorità”, ha scritto nel suo libro forse più noto, Anarchia come organizzazione (Elèuthera, varie edizioni), “esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio… del nazionalismo… delle religioni”. E questa raccolta di scritti sulle forme e le pratiche alternative dello spazio urbano (Architettura del dissenso, Elèuthera, Milano, 2016, 160 pagine, 14 euro), curata da Giacomo Borella dello studio Albori di Milano, risponde a questa convinzione, come ritroviamo nei suoi oltre trenta libri e in un’infinità di articoli e saggi pubblicati su varie riviste in diverse parti del mondo.

Ward, infatti, è stato (anche) un instancabile e acuto osservatore della storia sociale nascosta dell’urbanistica e dei modi e spazi dell’abitare. I saggi e gli interventi raccolti in questa antologia, tradotti per la prima volta in italiano, documentano proprio, ovviamente in parte, ma significativamente, vista la produzione di Ward in questo ambito, proprio le sue riflessioni sull’architettura e l’urbanistica, coniugando la precisione dello studioso, con la freschezza dell’autodidatta e la passione del militante. Capace di parlare di urbanistica e di costruzioni con non specialisti, come negli altri ambiti delle sue ricerche, Ward ha raccolto e sviluppato la generosità e la ricchezza culturale e professionale che i libertari hanno prodotto in questi ambiti.

Il suo approccio più che da “specialista” è da “artigiano” e si coniuga con quello di altri architetti “eretici”, collegando tra loro esperienze e figure tra le più disparate, come Bernard Rudofsky e gli scalpellini medioevali che erigevano cattedrali come quella di Chartres, Giancarlo De Carlo e i paesaggi “improvvisati” nel sud dell’Inghilterra, dall’egiziano Hassan Fathy agli autocostruttori di tutti i tempi, da Walter Segal a William Richard Lethaby, da Patrick Geddes a Carlo Doglio, dalle città giardino agli orti urbani, senza dimenticare il suo maestro forse più riconosciuto, il principe anarchico Pëtr Kropotkin, ma anche Paul Goodman e suo fratello Percival, Lewis Munford ed Ebenezer Howard, William Morris e Dwight Macdonald, gli squatters (fin dagli anni Quaranta) e la tradizione della “casa costruita in una notte”. La scrittura di Ward non è mai teoretica ma sempre molto pragmatica, semplice, essenziale, immediata, parte da un fatto, da una serie di esempi concreti, da osservazioni dirette, per cercare di rinvenirvi degli insegnamenti, mai però esaltati, sempre proposti come spunti di riflessione critica e autocritica.

Anarchico senza dogmi, intellettuale concreto poco interessato a rivolgersi a un’accolita di iniziati o a una setta, Ward non è il tipo di anarchico che scrive in codice, e non si perde mai nella polemica astiosa o nel culto devoto della tradizione. L’anarchismo, secondo la sua rivoluzionaria interpretazione, non è un “programma di cambiamenti politici ma un atto di autodeterminazione sociale”, lo “sguardo” di Ward esplora molte dimensioni della nostra vita sociale e quotidiana a partire da una premessa che non c’è circostanza della nostra esistenza e della vita pubblica che non presenti un grado latente di libertà e non consenta una scelta tra soluzioni “autoritarie” e “libertarie”, diverse cioè radicalmente da quelle burocratiche e autoritarie dello Stato. Ward ha lavorato per far “rientrare l’anarchismo… nel campo delle idee che sono prese sul serio” per renderlo “rispettabile” proprio in quanto teorie e pratica dell’organizzazione, concreta soluzione antiautoritaria ai tanti problemi del vivere quotidiano. La politica in senso tradizionale lo interessa pochissimo. Le diatribe ideologiche lo annoiano. Mai dottrinario, Ward non predica ma cerca sempre di inventare qualcosa e di capire.

Questo libro testimonia in maniera esemplare come si possa scrivere osservando in modo disincantato e critico ciò che ci accade intorno, ci stimola riflessioni e ci suggerisce un metodo di indagine e di ricerca, che supera le contestualizzazioni spazio-temporali da cui muove, per ritrovare un senso profondo al nostro rapporto tra lo spazio e l’ambiente, ci spiattella, senza dirlo, davanti l’orrore della pianificazione e dell’urbanizzazione delle società industriali e post-industriali. Il suo approccio, anche in questi ambiti, è globale, ricco, diversificato, interdisciplinare, non fornisce prescrizioni tassative ma racconta esempi che possono suggerire nuove pratiche per un uso non formale e inconsueto del nostro ambiente e dello spazio corretto e rispettoso che noi possiamo trovare all’interno di esso. Scorrendo i vari capitoli di questa antologia, appare chiaro che il tema di fondo, come scrive Borella nell’introduzione, del lavoro di Ward, rispetto all’architettura e la città, “è la storia sociale nascosta dell’abitare, con una particolare attenzione alle forme popolari e non ufficiali di costruzione e di trasformazione dei luoghi”, con la dovuta attenzione alle relazioni non passive tra gli individui e il loro ambiente. A Ward interessa insomma il “fai da te”, l’autotrasformazione, l’autocostruzione, tutto ciò che, rifiutando la relazione gerarchica e autoritaria che intercorre tra lo Stato burocratico e l’essere umano, riporta al centro l’autonomia e la libertà personale. Lo sguardo anarchico di Ward è quello che coglie “i semi sotto la neve”, quelle forme e quelle relazioni umane libertarie che esistono già e ci insegnano nuovi modi e nuove soluzioni ben più consone a mantenere lo spazio dell’autonomia individuale e di una comunità, nei confronti delle maglie soffocanti di una società autoritaria e burocratica.

Giustamente Borella sottolinea come “in questo percorso da autodidatta… possiamo rintracciare molta parte del carattere peculiare della sua ricerca, dei suoi interessi e, in definitiva, del modo in cui egli guarda al mondo e all’esistenza”. Un libro da leggere con quella sensibilità e quella disponibilità che può caratterizzare un sentire e un apprendere senza verità rivelate e senza spocchiose chiusure professionali.

di Francesco Codello