Relazioni tra governi e banche centrali
La crisi iniziata nel 2008 sta avendo, tra gli altri effetti, quello di indurre gli economisti a riflettere su alcune idee che erano diventate quasi di patrimonio comune. Una di esse era l’indipendenza delle banche centrali, cioè l’idea che la politica monetaria non dovesse essere sotto l’influenza del potere politico, ma delegata a un organo tecnico – la banca centrale, appunto – a cui i governi dovevano solo indicare gli obiettivi da perseguire. L’indipendenza delle banche centrali era vista come un modo per evitare che i governi usassero in modo opportunistico, per ragioni elettorali, la politica monetaria per dare un impulso all’economia all’approssimarsi di elezioni. Il costo di tali politiche espansive era visto in un’eccessiva inflazione.
L’idea è adesso messa in discussione. Simon Wren-Lewis, economista dell’università di Oxford, nel suo popolare blog Mainly Macro ha recentemente sviluppato un ragionamento. I governi si sono abituati a lasciare che siano le banche centrali a regolare il ciclo economico, con una riduzione dei tassi di interesse quando l’economia entra in una fase di ristagno e con un loro aumento quando si surriscalda. Il compito dei governi, in questa visione, rimane solo quello di non far correre eccessivamente deficit e debito pubblico. Ma questa divisione dei compiti funziona solo fino a quando le banche centrali possono influenzare l’attività economica. Quando i tassi di interesse raggiungono lo zero, la politica monetaria diventa inefficace. Dovrebbe essere la politica fiscale a entrare in azione a questo punto, ma i governi, avendo interiorizzato il timore di squilibrare i conti pubblici sono riluttanti a farlo. Le economie allora ristagnano per un’austerità “stupida”. Il caso è esemplificato in modo particolarmente evidente dall’Eurozona, con il suo Patto di stabilità che pone freni all’uso della leva fiscale dei governi.
Quale sarebbe la via d’uscita dalla crisi? Una politica fiscale espansiva finanziata dalla banca centrale, che può assumere la forma di helicopter money, cioè di un assegno alle famiglie firmato dalla banca centrale, come già proposto ormai tre anni fa da Adair Turner (e prima ancora da Milton Friedman) o di un programma di spesa pubblica finanziato con la creazione di moneta. In questo modo si eviterebbe di creare nuovo debito e i timori inflazionistici della mossa sarebbero in questo momento trascurabili o di secondo ordine. Ma l’indipendenza delle banche centrali impedisce questo tipo di politica e ci condanna a una lunga stagnazione.
Il caso Eurozona
Alcune osservazioni. La prima è che Wren-Lewis ha il merito di porre una domanda diversa dal solito tema sul mandato doppio o singolo delle banche centrali. È vero che la Banca centrale europea ha un mandato che riguarda solo la stabilità dei prezzi, contrariamente alla Federal Reserve, ma la timidezza che ha mostrato a reagire inizialmente alla crisi non è ascrivibile a esso, ma più probabilmente al diverso impatto della crisi nei vari paesi dell’Eurozona e alle divisioni tra i vari membri del suo consiglio direttivo. Non è ovvio che un mandato più ampio per la Banca centrale europea avrebbe l’effetto di attenuare le divisioni e anzi non è improbabile che possa generarne uno opposto.
Il secondo punto riguarda la generalità dell’analisi. Lasciando da parte la domanda se la politica monetaria non convenzionale seguita dalle banche centrali di vari paesi in questi anni sia stata efficace o meno, occorre osservare che il governo americano e quello britannico hanno adottato politiche fiscali espansive nel periodo immediatamente successivo alla crisi. Forse non espansive come alcuni economisti avrebbero desiderato, ma di certo la risposta è stata più forte che nell’Eurozona. Ha senso invocare una terapia così drastica se il problema è localizzato principalmente all’interno dell’area euro?
La terza osservazione è un invito alla prudenza. Spesso gli economisti tendono a generalizzare troppo dalle esperienze più recenti. La lunga lotta contro l’inflazione degli anni Settanta contribuì all’idea che fosse opportuno avere banche centrali indipendenti con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi. In tempi di deflazione, ci sembra che tale compito sia come presidiare una frontiera ormai sicura, ma bisognerebbe anche ricordare come proprio negli anni prima della crisi si parlasse di “Grande moderazione”, cioè dell’impossibilità del ripetersi di una depressione come quella degli anni Trenta.
Ma è lo stesso Wren-Lewis, in un post successivo, a sollevare il punto più rilevante, riconoscendo che l’essenza del problema da lui sollevato è nei governi e non nelle banche centrali. Basterebbe che fossero più risoluti a usare la leva fiscale nelle recessioni. In altre parole, l’apparente impotenza delle banche centrali è anche il frutto della mancanza di determinazione dei governi, come ben sa il presidente della Bce, Mario Draghi, unico giocatore veramente attivo nella crisi europea.
La conclusione che forse si può trarre da queste riflessioni è che oggi è bene discutere di tutto e non dare più nulla come scontato, anche quelle che ci sembravano certezze da inserire in manuali di testo di economia solo alcuni anni fa. Ma è saggio anche non precipitarsi ad avere certezze di segno opposto.
* Ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l’Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l’Università di Bologna, l’Università di Pavia, Lecturer all’University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la teoria dell’impresa, finanza d’impresa e teoria dei contratti. Redattore de lavoce.info.