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Il 14 novembre 2013 sul torrino del Quirinale sventolava la bandiera vaticana. Su quello che fino al 1848 era stato il Palazzo dei Papi entrava il primo vescovo di Roma con il nome del patrono d’Italia. Ma anche il primo Pontefice gesuita e proveniente dall’America latina. Giorgio Napolitano, che all’inizio di quello stesso anno aveva annunciato la fine del suo settennato, era ancora sul colle più alto della Capitale dopo la rielezione alla presidenza della Repubblica. Il Papa, invece, proprio in quei mesi era cambiato. Dopo le dimissioni improvvise di Benedetto XVI era arrivato sul soglio di Pietro lo tsunami Jorge Mario Bergoglio. Un uomo noto per la vita spartana che conduceva da sempre e che non aveva minimamente modificato nemmeno quando, nel 2001, l’anziano e malato Karol Wojtyla gli aveva imposto la berretta rossa creandolo cardinale.

Bergoglio era rimasto Bergoglio. Un bilocale nel seminario di Buenos Aires, pasti semplici nella sua dimora per lo più a base di scatolette di tonno, caffè per gli ospiti che lo andavano a trovare, contatto diretto con i preti della sua immensa arcidiocesi, visite frequenti alle sue amate villas miserias per governare dalle periferie e non dal centro, viaggi in metropolitana. Il profilo ideale di un non papabile al soglio di Pietro soprattutto dopo i fasti di paramenti e cerimoniali rispolverati sotto il pontificato del mite e umile Benedetto XVI. Eppure nel conclave del 2005 Ratzinger e Bergoglio si erano affrontati sotto le volte della Cappella Sistina “come i ceci nella pentola”, per usare l’immagine adoperata da Roncalli dopo la sua elezione al pontificato.

Il cardinale di Buenos Aires era ben consapevole che gli occhi dei cardinali elettori, dopo le dimissioni choc di Ratzinger, sarebbero caduti nuovamente su di lui. In quei giorni di preconclave, tra dossier per minare la sua candidatura dall’interno con tanto di false ricostruzioni sulla sua salute e sullo stato dei suoi polmoni, la domanda principale era una sola: Bergoglio eletto Papa avrebbe continuato a vivere tra i poveri o sarebbe diventato il monarca assoluto della Chiesa cattolica? Soltanto gli amici più intimi all’interno del collegio cardinalizio avrebbero scommesso che nulla sarebbe cambiato nella vita di quell’uomo che aveva da poco superato i 76 anni di vita.

E così, subito dopo la fumata bianca, la prima riforma del cerimoniale: niente camicia con i gemelli dorati, niente pantalone bianco e scarpe rosse, niente rocchetto ricamato, niente mozzetta rossa, una semplice stola solo al momento della benedizione Urbi et Orbi, niente croce d’oro, niente trono nella Cappella Sistina per ricevere l’omaggio dei cardinali e degli assistenti del conclave e nella Cappella Paolina per pregare prima di affacciarsi alla loggia centrale della Basilica Vaticana. E poi a seguire niente auto blu ma seduto sul pulmino insieme con i porporati per rientrare a Casa Santa Marta che diventa da subito la sua residenza pontificia al posto della terza loggia del Palazzo Apostolico Vaticano. Niente privilegi e sconti pagando di persona il conto della sua stanza alla Casa sacerdotale di via della Scrofa a Trastevere. “Durerà poco”, scommettevano in quelle settimane nei sacri palazzi. “Prima o poi anche lui dovrà accettare i fasti della corte papale e soprattutto di vivere nell’appartamento nel Palazzo Apostolico”.

Dopo tre anni di pontificato la storia ha smentito i profeti della prima ora e gli scettici di una rivoluzione di un “pastore con l’odore delle pecore” fatta prima di tutto di segni concreti. Quei gesti che sono la vera enciclica che Francesco ha scritto in poco più di mille giorni di governo della Chiesa. Da Lampedusa con il dramma degli immigrati al centro della sua agenda, ai detenuti di tutto il mondo con la richiesta ai governi di un’amnistia in occasione del Giubileo straordinario della misericordia. Dai malati terminali, ai giovani disoccupati, agli anziani scartati fino ai ragazzi della comunità di recupero del Centro Italiano di Solidarietà don Mario Picchi che il Papa ha abbracciato e ha ascoltato come un padre.

Ancora stupiti per quella visita inaspettata di colui che definiscono “l’uomo più potente del mondo”, forse gli auguri più belli a Francesco sono arrivati proprio da loro: “Santità, della sua improvvisa e commovente visita rimarranno i gesti concreti di padre che lei ha compiuto abbracciandoci, guardandoci negli occhi, ascoltando le nostre storie, facendo merenda con noi, ma anche ricordandoci che abbiamo il dovere di rialzarci dalle nostre cadute”. Poco importa se nella Curia romana o fra gli episcopati del mondo, quello italiano in primis, lo stile Bergoglio sconvolga o addirittura irriti perché mette in risalto l’opulenza principesca di alcune corti episcopali con a capo principi più che pastori che amano pavoneggiarsi tra mondanità materiale e spirituale. Francesco va avanti per la sua strada certo che è quella del Vangelo, non del comunismo come obietta qualche critico. Senza paura della sua solitudine ma con una sola certezza: “I malati, i poveri, gli ultimi sono il mio passaporto per il paradiso”.

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