Per costruire una chiesa ci vogliono soldi. E nella Locride i soldi ce l’hanno le cosche mafiose. Interrogato dall’ex sostituto della Dda di Reggio Calabria, Paolo Sirleo, il pentito Antonio Femia, detto “Titta”, aggiunge un altro tassello a quello che può essere definito un rapporto ambiguo e inconfessabile tra gli ambienti mafiosi e quelli ecclesiastici. Quel verbale è stato inserito nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato all’arresto di 34 persone nell’ambito dell’operazione “Tipographic” che ha stroncato la cosca di Gioiosa Jonica e un giro di usurai.
Rispondendo alle domande del pm (oggi non più in servizio a Reggio Calabria), il 25 agosto 2015 il pentito si è soffermato sulla figura di Nicola Antonio Simonetta, già in carcere perché arrestato nell’operazione antidroga “New Bridge” e ritenuto dalla Direzione Distrettuale antimafia “organico alla ‘ndrina di Prisdarello, all’interno della quale rivestiva una ‘carica’ di rilievo”.
Secondo il pentito Femia, Simonetta gestiva alcuni locali tra cui un ristorante “dove avevano luogo riunioni di ‘ndrangheta e mangiate in occasione di incontri tra affiliati”. Un ristorante che Simonetta aveva avviato in un locale acquistato all’asta dal Comune di Gioiosa Jonica per 151mila euro.
“Fa parte della ‘ndrangheta nel locale di Prisdarello – è il verbale del collaboratore di giustizia – Presso un capannone vicino alla sua proprietà facevamo riunioni di ‘ndrangheta. Nel suo ristorante abbiamo fatto delle mangiate. So che il ristorante era una scuola e che è stato dato dal Comune. So che Simonetta aveva sostanzialmente gratis questa struttura che poi lui ha trasformato”. Vicino al ristorante di Simonetta, nella frazione di Prisdarello, c’è la chiesta dedicata a Sant’Antonio: “Per la costruzione della chiesa la ‘ndrangheta ha messo dei soldi”.
Costruita alla fine degli anni ’90, per la chiesa di Sant’Antonio nel 1996 è stato costituito un apposito comitato di cittadini del luogo che hanno contribuito, anche economicamente, per la realizzazione dello stabile assieme agli emigrati e alle istituzioni.
Non è la prima volta che, nelle inchieste giudiziarie della Dda di Reggio, compare il rapporto tra Chiesa e ‘ndrangheta. Dalla Locride alla Piana di Gioia Tauro la storia non cambia.
A Oppido Mamertina, infatti, un giovane legato alla cosca Mazzagatti, Simone Pepe, arrestato un paio di anni fa per aver dato un uomo in pasto ai maiali, spiega a un amico: “L’Arcangelo Gabriele, quello con la spada che cacciò Lucifero dal Paradiso, ci protegge. Quando mi hanno battezzato hanno bruciato la sua immagine nel palmo della mia mano”. E sempre allo stesso amico racconta come, in occasione della processione, gli affiliati alla ‘ndrangheta portano per le strade del paese la vara della Madonna addobbata con l’oro che i clan (e non solo) avevano donato alla Chiesa. Oro che, un giorno, spari perché rubato da “tre picciotti di basso rango”. L’oro fu recuperato e, di notte, riportato in chiesa. I tre picciotti? “Minchia li ammazzarono tutti”.