A chi capita di analizzare piani di difesa idraulica e progetti di infrastrutture o di opere isolate, salta agli occhi una crescente povertà di contenuto culturale, scientifico e tecnico. Di qui, un contenzioso sociale che in molti casi si potrebbe evitare, perché invocare sempre e solo la sindrome nimby (non nel mio cortile) è un alibi a cui ricorrono le amministrazioni incompetenti e i progettisti frettolosi.
Questa opinione è condivisa da molti colleghi, anche se di rado vede la luce, giacché la risposta di Don Abbondio al Cardinal Federigo Borromeo è tutt’oggi un fedele tweet del paese e dei suoi nativi: “Il coraggio uno non se lo può dare”.
Nell’attività professionale si è ormai radicata la convinzione che la fase “critica” sia l’acquisizione della commessa, seguita a ruota (di questi tempi) dalla riscossione dell’onorario. Questa certezza di pensiero si era consolidata nell’ultimo quarto del secolo scorso, quando contribuire in percentuale fissa alle fortune della politica, dapprima, e dei politici, più prosaicamente in seguito, era perfino diventato un fiore all’occhiello da ostentare con orgoglio. Nel nuovo secolo, la consuetudine ha preso forme diverse, legate piuttosto a cordate e amicizie che a dazioni dirette, ma la mortificazione della qualità non è in sostanza mutata.
La qualità è un bonus accessorio che, oltre a tutto, di rado viene valutato in concreto neppure a posteriori. E quasi mai a medio e lungo temine, che sono gli orizzonti tipici di questo tipo di interventi. Questo andazzo ha minato profondamente l’essenza della pianificazione e della progettazione, poiché altre virtù scaldavano il motore dei committenti (pubblici ma, talvolta, anche privati). E, per di più, ha diminuito la capacità del nostro mondo progettuale di competere fuori dal recinto nazionale, dove la qualità non è un fattore accessorio. Anche se non sempre accade e tutto il mondo è paese, accade ancora spesso che la qualità faccia premio.
Nel corso del tempo, anche la capacità dei committenti nazionali di verificare la qualità di piani e progetti si è affievolita, poiché gli aspetti burocratici, organizzativi e gestionali hanno preso il sopravvento su ogni questione culturale, scientifica e tecnica, occupando le giornate dei quadri tecnici. A sua volta, il massimo ribasso ha costituito l’ancora di salvezza per sviare i sospetti ma, nello stesso tempo, anche la pietra tombale della qualità. I tecnici pubblici degli anni ’30 del secolo scorso erano in grado di progettare in-house opere importanti come la copertura del Bisagno di Genova o la fognatura reticolare di Milano. E perciò di valutare concretamente la qualità. Oggi anche piccole progettazioni sono affidate all’esterno in ossequio ai moderni criteri gestionali.
La consolidata sottomissione di consulenti e tecnici produce infine un effetto di acritica dipendenza dal committente, spesso pubblico, del tutto incomprensibile agli stranieri e, sperabilmente, ai posteri. Ha scritto Andrea Rinaldo, idrologo padovano di fama internazionale: “Grande è l’incredulità dei colleghi stranieri per l’assunto tutto italiano consulenza = dipendenza che anima il dibattito tecnico. Sembra loro incredibile, in particolare, l’irrilevanza delle qualificazioni scientifiche per la credibilità delle tesi tecniche”.