“E’ una legge plebiscitaria: non si elegge il Parlamento, si vota il capo”
(Massimo D’Alema a proposito dell’Italicum, intervista al Corriere della Sera, 11 marzo 2016)
“Dopo tanta fatica per conquistarlo, non bisogna dissipare o accantonare il diritto di voto. L’astensionismo è una ferita che nessuno può permettersi di trascurare. La disaffezione e la distanza, che i cittadini avvertono, va ridotta con una ripresa di vitalità delle istituzioni e dei partiti, che restano strumento essenziale della vita democratica”
(il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando i 70 anni del suffragio universale, 8 marzo 2016)
La battaglia di Matteo Salvini per “far scegliere” il candidato sindaco del centrodestra “ai romani” si è risolta con una specie di performance circense: Forza Italia ha organizzato le primarie con un nome solo. Il partito che voleva fare la rivoluzione liberale ha concesso la possibilità di poter dire di no. Metodi più seri per la scelta del candidato-sindaco sarebbero stati il giudizio di Cracco o una sfida alla pentolaccia. Quando la cronista de ilfattoquotidiano.it Irene Buscemi ha fatto notare a Bertolaso che ai gazebo c’era chi aveva votato più volte, quello – invece di imprecare – ha riso, due volte.
Le primarie con un nome solo sono l’ultimo ritrovato dei partiti italiani in termini di democrazia. Quello che a prima vista è un problema di una minoranza di una minoranza, cioè gli elettori del centrodestra a Roma, tradisce un vizio che appassiona tutte le forze politiche: giocare con la democrazia. Usare il voto, la partecipazione, la “base” non solo per estendere i diritti e quindi l’influenza dei cittadini sulle scelte, ma soprattutto per benedire il ceto politico e le sue scelte, giuste o meno.
Di elezioni finte è piena la Storia. Napoleone usava i plebisciti per cristallizzare colpi di Stato e conquiste del potere: l’ultima volta nel 1802 per diventare console a vita. E in Italia Benito Mussolini per un paio di volte (nel 1929 e nel 1934) fece votare gli italiani con il metodo Bertolaso. Così, per gioco. Il Gran Consiglio del Fascismo buttava giù 400 nomi e gli elettori potevano dire sì o no alla lista. Nel 1929 finì con il risultato di 8 milioni e mezzo a 136mila. Cinque anni dopo andò meglio: la listona fu approvata dal 96 per cento dei votanti e per coincidenza la percentuale fu identica a quella di Bertolaso.
Anche i più annoiati a questo punto noteranno qualche somiglianza con la legge utilizzata 80 anni dopo dalla Repubblica per formare il Parlamento in tre legislature diverse, compresa quella attuale. Il Porcellum, pace all’anima sua, prevedeva liste di decine di nomi ai quali si poteva rispondere di sì o di no. Chi sceglieva un partito si doveva ciucciare tutta la sfilza. Se non voleva dare la preferenza a un nome era costretto a cambiare partito o a non votare. Quel sistema elettorale ha resistito per quasi 10 anni e per neutralizzarlo ci sono voluti un po’ di avvocati rognosi e i 15 giudici della Corte costituzionale. La politica, impegnata in altre questioni, è arrivata di nuovo un pelino in ritardo, ma appena ha rimesso mano al sistema elettorale, ha confermato una quota di candidati bloccati, i capilista, che l’elettore dovrà inghiottire per forza.
Qualche problema c’è anche con la democrazia interna ai partiti. Lunedì per esempio le cariche più alte del Partito Democratico – Lorenzo Guerini e Matteo Orfini – hanno archiviato come regolari le elezioni primarie prima ancora che si riunissero gli organismi – del Pd – competenti a giudicare la validità del voto per scegliere il candidato sindaco di Napoli. Quando poi i garanti si sono riuniti hanno approvato, come ha raccontato Vincenzo Iurillo su questo giornale, i verbali di 78 seggi in 47 minuti, una media di 36 secondi a verbale: una scena che ricorda le prestazioni di Rosi Mauro, sgangherata vicepresidente del Senato leghista fino al 2013. Il Pd ha anche fornito tre numeri diversi in 5 giorni sull’affluenza ai seggi di Roma. Sullo sfondo la magia delle schede bianche che come la marea prima sono avanzate e poi si sono ritirate.
D’altra parte è la stessa velocità con cui Matteo Renzi fa uso della direzione del Pd dove ha una maggioranza schiacciante conquistata non con una rapina, ma legittimamente con un congresso. E’ un organismo di cento e passa componenti che – liberamente – ratifica decisioni già prese dal presidente-segretario. Fu proprio un voto della direzione del Pd due anni fa che decise per esempio che il presidente del Consiglio doveva essere sostituito (136 sì, 16 no e 2 astenuti), banalizzando così in un solo colpo anche il ruolo del Parlamento che avrebbe dovuto esprimersi sulla questione di fiducia qualche giorno dopo.
A Milano, seconda città d’Italia, i Cinquestelle – secondo partito d’Italia – hanno invece sperimentato le primarie con il rinculo. A inizio novembre hanno fatto votare il loro candidato sindaco e la risposta è stata Patrizia Bedori che si era candidata liberamente. Ora, 4 mesi dopo, la Bedori ha rinunciato, perché – dopo essere messa in dubbio dal Papa laico Dario Fo – ha scoperto che essere candidati a sindaco prevede essere anche oggetto di articoli di giornale che lei ha definito “pressione mediatica” e “macchina del fango” (Giuseppe Sala con questo metro di misura dovrebbe chiamare Amnesty o invocare l’intervento dei Marines). In realtà la storia è più complicata, l’ha raccontata Martina Castigliani e la trovate in home page. Il risultato è che il candidato sindaco sarà chi è arrivato terzo oppure rivotato daccapo. A Bologna, città del primo Vaffanculo-Day, dopo aver annunciato la propria candidatura alle Comunarie l’attivista Lorenzo Andraghetti si è sentito rispondere che non c’era più tempo. Poi Di Maio ha definito un consigliere comunale, Massimo Bugani, il “candidato naturale”. Infine Andraghetti è stato espulso. Le Comunarie a Bologna non si sono celebrate.
Lo stesso M5s ha anche eseguito un’espulsione in blocco, cioè con un voto unico per tutti, quattro senatori (Orellana, Battista, Campanella e Bocchino). Nello stesso anno gli iscritti ai Cinquestelle approvarono a larghissima maggioranza (21mila sì contro meno di 4mila no) un testo di legge sulle unioni civili che comprendeva l’adozione del figlio del partner. Oltre un anno dopo, però, è stato deciso (senza voti) prima che ai parlamentari doveva essere garantita libertà di coscienza su tutto il testo e poi che quella libertà di coscienza doveva limitarsi all’adozione (tutto questo prima della frittata finale tra canguri del Pd e voti di fiducia di Renzi). Quanto al sistema di voto online e alla sua certificazione deve valere la stessa fiducia – per non dire fede – che gli elettori del Pd ripongono per gli scrutatori delle primarie. All’area a sinistra del Pd, per finire, può essere dedicata questa riga e mezzo perché è composta in buona parte da chi l’esito del voto delle primarie non lo accetta nemmeno e se ne va dopo aver perso, se non straperso.
Eppure tutto questo è politica: non c’è niente di illecito. Solo che così l’effetto è che il significato del voto – l’atto di alzare la mano, fare un segno su una scheda, cliccare su sì o no, pronunciare sì o no davanti al banco della presidenza – ne risulta mortificato. E non si può pensare che la strozzatura della libertà di voto, la distorsione del parere chiesto ai cittadini, il ricorso alla partecipazione a corrente alternata, l’uso del voto a piacimento non lascino un segno.
Le primarie del Pd registrano un calo generale di affluenza che ha poche eccezioni (principalmente la Calabria e la Campania). Una flessione iniziata già con il congresso che ha eletto Renzi segretario. Alle Comunarie dei Cinquestelle a Milano hanno votato in 300 circa su oltre 1800 (un sesto), a Roma in 3800 su 9500 (poco più di un terzo), a Napoli in 588 su 5462 (poco più di un decimo). Il centrodestra non fa iniziative serie e misurabili, ma ha perso 7 milioni di voti tra il 2008 e il 2013, un esodo. E su tutto ci sono i sondaggi che danno – tutti – l’astensionismo in crescita, l’area del non voto è stimata tra il 36 e il 42 per cento. Alle ultime regionali ha votato un avente diritto su due, qualche mese prima l’Emilia Romagna – ritenuta tra le Regioni più “dotate” di senso civico – è rimasta sotto shock per un dato di affluenza abbattuto fino al 37 per cento.
Chi si è accorto di questa malattia è soprattutto l’unico che non deve essere eletto, il presidente della Repubblica. Se ne sono accorti i sondaggisti: Nando Pagnoncelli ha spiegato che c’è un ritorno all’elettorato tifoseria che rispecchia i partiti-tifoserie: “fanatici” che impegnano la maggior parte delle energie a dare la colpa all’altro. E se ne sono accorti anche i partiti e i candidati. “L’avversario più temibile è l’astensionismo – ha detto Virginia Raggi, candidato sindaco a Roma – I cittadini sfiduciati che non credono più a nulla”. Se ne sono accorti i partiti e infatti hanno capito tutto: D’Alema dà la colpa ai renziani, i renziani danno la colpa al fato, la destra se ne frega, il M5s dà la colpa a Renzi. Il presidente-segretario definì l’astensionismo in Emilia un “problema secondario”. Ora resta zitto e si gode l’arrivo dei due referendum.