Una mamma in politica suona come un tradimento: ci si chiede come sia possibile che una donna impegnata nella crescita dei figli possa anche solo credere di candidarsi. E come sia pensabile che lo possa fare se aspetta un bimbo, se non è bella, se non è magra. Insomma, come vi è saltato in mente anche solo di provarci. A Roma e a Milano poi, neanche a pensarci. Per due città grandi, serve un sindaco grande, non una piccola mamma. E allora va bene candidarsi a rappresentante della classe dei figli, animare la chat su whatsapp dei genitori, gestire i regali di compleanno e le recite scolastiche, andare a comparare i tovaglioli, i bicchieri e la carta igienica che nelle classi manca sempre. Va bene anche fare volontariato, così ti senti realizzata e non ci scassi più con questa storia della realizzazione personale. Ma non provare a voler essere equamente retribuita per il tuo lavoro o a candidarti a sindaca. Non ti azzardare a fare politica, a meno che tu non sia stata nominata ministra per volere di un uomo. Non prendere queste iniziative da sola. Hai un figlio sulla coscienza, se non rinunci a te stessa, rinunci a lui.
Quello che puoi fare, però, è lavorare 10 ore al giorno sottopagata e precaria, con le dimissioni in bianco firmate nel cassetto. Quello che ti è concesso è affogare nel traffico che ti separa prima dal lavoro e poi dalla famiglia. Quello che ti è permesso è far credere al mondo che sei multitasking, naturalmente portata per fare più cose insieme. Quando invece ti adatti solo alle circostanze e ne faresti volentieri a meno. Perché tu, banale precaria o lavoratrice sottopagata, non sei merce da campagna elettorale e quindi se rinunci a tuo figlio per il lavoro, anche per 10 o più ore al giorno, il problema è solo tuo e non collettivo.
Le esternazioni degli ultimi giorni nei confronti delle candidate mamme o future tali non ci raccontano nulla di nuovo. L’Italia è un paese bagnato dagli stereotipi, che permeano la maternità, il lavoro e la partecipazione delle donne alla vita politica. Ma a dire il vero quelle accuse così medioevali sono rivolte a donne che stanno già superando gli stereotipi di genere con i fatti. La questione, dunque, non è tanto difendere la loro posizione, ma sostenere quella di tutte le altre. Il punto non è se una candidata sindaca può fare anche la mamma. Se ci sono mamme che lavorano in una miniera sarda, a rischio della stessa vita, non vedo perché non debbano esserci mamme che lavorano in politica. Almeno nel secondo caso vengono pagate.
Il punto è la non discriminazione della donna, qualunque lavoro faccia, anche dopo la maternità. E’ chiederci non solo dove stanno le mamme, ma che fine hanno fatto i padri. E’ capire che la decisione sacrosanta di rallentare dopo la nascita dei figli, spetta solo alla donna ma non può essere riconducibile a un cliché sociale.
Questo dilemma tutto italiano riscopre i limiti di una società che non è pronta a liberare i figli dalle madri e i padri dalla loro marginalità. La domanda, quindi, non è tanto se una sindaca mamma ce la farà a lavorare, la domanda è se ce la faranno tutte le altre. Perché se è vero che il mondo della politica non è pronto per le sindache mamme, è ancor più vero che quello del lavoro non lo è per le madri lavoratrici. E allora domandiamo perché ha più titoli sui giornali una donna incinta che vuole candidarsi, invece di una donna incinta che un lavoro non ce l’ha più. Domandiamoci perché la maternità è un fatto collettivo solo quando c’è di mezzo una sindaca mamma e non quando si tratta di una mamma precaria.
Rimettiamo al centro delle cose il tema della maternità precaria e non solo il tema della maternità politica. Ridiamo voce alle maternità banali, quelle dai mille lavori e dai mille euro al mese. E’ solo rincorrendo questa normalità che ci sarà spazio per tutte.