La notizia al momento non ha assunto alcun colore determinato: Salvatore Cuffaro, detto Totò, appellato soprattutto come Vasa vasa per l’abitudine a baciare qualsiasi cosa sia a portata di smack, ex governatore della Sicilia condannato per favoreggiamento a Cosa nostra, detenuto per cinque anni e libero da 90 giorni, torna ad esporsi al pubblico. Lo ha fatto a Palermo, al teatro don Bosco Ranchibile, e ha scelto come accompagnatori politici del suo evento l’ex ministro Saverio Romano (vale la pena di ricordare: processato e assolto per concorso esterno alla mafia) e l’ex presidente del Senato Renato Schifani (come sopra: indagato e prosciolto per lo stesso reato).

Totò Cuffaro all'uscita da Rebibbia

L’occasione è la presentazione dell’ultimo libro, il terzo, da quando davanti ai suoi occhi si chiusero i cancelli del carcere di Rebibbia. I primi due portano titoli quantomeno onirici: Il candore delle cornacchie e Le carezze della nenia. Il titolo del terzo è un po’ più semplice, ma non per questo di facile e immediata comprensione. Si chiama: L’uomo è un mendicante che crede di essere re. Ora, sui titoli dei libri di Cuffaro, si potrebbe probabilmente fare un’intera ed inutile rubrica di satira. Si potrebbe passare il tempo attaccando chi lo presenta come “sicuro innocente” (condannato con sentenza definitiva: va bene il beneficio del dubbio, ma qui si esagera) o addirittura come “Cristo in croce” (e su questo passaggio è meglio evitare ogni commento). Si potrebbe anche battagliare su una serie di dichiarazioni dello stesso Cuffaro, rilasciate da quando è a piede libero, a cominciare da quel “non torno alla politica istituzionale e attiva”, sbugiardato all’istante da un’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. Ma non è questo il punto.

Decine di giornalisti, investigatori e saggisti hanno impegnato anni di vita a neutralizzare ogni singola discrepanza, balla e scivolone di Cuffaro Salvatore, all’epoca pingue e potentissimo governatore della Sicilia. Piuttosto a colpire e a fare riflettere sulla pubblica uscita del don Bosco Ranchibile sono le presenze e le condotte: si legge di cinquecento, mille e passa persone, si sentono sacerdoti ricordare l’antica adorazione di Totò per il santo piemontese, si osservano occhi umidi, applausi scroscianti, parole intinte nella saliva, e ovviamente baci a profusione, specialità della casa. Un film praticamente visto e rivisto, almeno per chi è siciliano. Solo che non è come prima. Non come si ricordava che fosse. Non è come dieci anni fa, con lo spavaldo Cuffaro che prendeva in giro i giornalisti di Annozero, sbaciucchiando ogni essere vivente a testimonianza della sua audience.

Non è come quando Francesco Forgione chiese le sue dimissioni all’Assemblea regionale siciliana, e lui – dopo averlo praticamente ignorato – invece di difendersi lo accusò di “pratiche divinatorie”, con un discorso dai toni durissimi: “Lei – disse Cuffaro – sa tutto, onorevole Forgione, sa troppe cose. Sa anche quello che non si dovrebbe sapere. E vorremmo capire perché lei sa tutto questo”. E non è nemmeno come quella puntata del Maurizio Costanzo Show del 1991. Ricordate? In studio c’era Giovanni Falcone ancora vivo e vegeto, collegato da Palermo con Michele Santoro spuntò ad un certo punto un giovanotto incazzato. “C’è in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Questa volgare aggressione l’avete costruita sapientemente perché avete bisogno di delegittimare le persone migliori che abbiamo, perché questa Sicilia vada sempre più in fondo. Perché quello di stasera è giornalismo mafioso. Il giornalismo mafioso che è stato fatto fa più male alla Sicilia, che dieci anni di delitti”, disse il futuro governatore.

Lo conoscevamo da allora, dieci anni prima della plebiscitaria elezione sulla poltrona più alta di palazzo d’Orleans, vent’anni in anticipo sul suo arresto, un quarto di secolo sulla sua scarcerazione. In mezzo è passato di tutto: le stragi, i vent’anni di Berlusconi, le cazzate dell’Ulivo, e – soprattutto – l’antimafia. Già l’antimafia. Quella parolina nata nobile, e mai diventata così radiottiva come di questi tempi, dopo una serie incresciosa di scivoloni, scandali e vergogne. Eppure ai tempi della comparsata al Maurizio Costanzo Show, quella parolina non era così imbarazzante. E non lo sarebbe stata nemmeno anni dopo, con Totò al potere.

Già, Totò al potere. Dispiace scomodare Ernest Hemingway, ma purtroppo non se ne può fare a meno. Perché lo scrittore statunitense diceva che ogni generazione è segnata da un evento, che forma l’immaginario e i racconti di quella generazione. Giuseppe Rizzo ha scritto sull’Internazionale che quell’evento, per chi è nato in Sicilia negli anni settanta e ottanta, è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Eventi successivi alla performance televisiva numero uno di Totò. Che infatti in quegli anni, era pressoché svanito dalla sensibilità comune. C’è però un’altra generazione, nata in tempo per vederli finire gli anni 80 (o anche dopo), che però quelle bombe se le ricorda appena. Sì, è vero, ci hanno segnato, ma non così tanto da fare cominciare ogni cosa da lì, da quel momento. Potremmo dire che quegli eventi hanno influito sulla nostra singola formazione, ma a freddo, senza sangue, o meglio senza capirlo davvero quel sangue. È come quando conosci una cosa che non ricordi di avere mai visto, e quindi la combatti non appena acquisisci un minimo di consapevolezza. Come quelli nati negli anni 40, e quindi antifascisti senza ricordi del fascismo, ma barricaderi estremi al primo giro di ’68. Ecco: Cuffaro è stato questo, per quelli nati sul finire degli Ottanta. La prima personificazione dello Stato – mafia, dell’ordine precostituito che bigiava con i mafiosi, dei potenti che distruggevano ogni risorsa pubblica, in modo che non rimanesse nulla per noi, quelli che venivamo dopo.

Come ci si poteva riconoscere nella sua gestione del potere? Come condividere la sua scelta delle parole, delle priorità, delle amicizie chiacchierate? E per quelli più informati: come non stroncare ogni singolo atto di quel governo che ha impoverito la Sicilia a colpi di assunzioni indiscriminate e appalti inutili e criminali? Come non piazzarsi, dunque, all’opposizione di Totò, il primo governatore di Sicilia condannato per avere favorito la mafia, che tutto mortificava a beneficio dei suoi scudieri? È così che è cresciuta una certa generazione di siciliani. Eppure dieci anni dopo, non è successo niente. Peggio ancora, dato che il niente, almeno è comprensibile. Totò ha a malapena ammesso di avere forse sbagliato, senza spiegare dove e quando, senza raccontare quanto ancora non sappiamo, (perché di quella storia delle talpe alla Dda, molto rimane da capire, ma questa è un’altra storia). Ha detto che è “andato a sbattere contro la mafia”, tipo incidente stradale. E quindi non è rimasto che un Cid da compilare.

La generazione di cui sopra, quelli nati in tempo per vederli finire gli anni Ottanta, sembra aver fatto la fine degli antenati post bellici: i sogni stretti nel cassetto, testa bassa e pedalare. Dell’antimafia, buon’anima, abbiamo già accennato: perisce ogni giorno sotto un nuovo imbroglio, più distruttivo di un’intera strage a colpi di tritolo. E a noi – quelli che pensavamo di avere scelto una parte giusta, non solo a livello ideale ma proprio migliore per il futuro della nostra terra – non rimane nient’altro che osservare Totò, trionfante di baci e abbracci, attraversare una folla che ha pittato in faccia l’essenza di questa storia: niente ci fu.  Chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato. Scordiamoci il passato. E finiamola con un caffè.

P.s. Chissà perché la performance colma di baci e abbracci di Totò scrittore tornato libero, richiama nella memoria di chi scrive un’altra scena, completamente diversa, ma forse indicativa sul perché certe cose siano andate in un certo modo. Maggio 2006. In Sicilia si votava per le regionali. Totò Vasa vasa, già inquisito per mafia, si era ricandidato. A sfidarlo, a sinistra, Rita Borsellino, la sorella di Paolo, antropologicamente distante dal governatore ridanciano, come lo definì anni fa il pentito di mafia Angelo Siino. Un ragazzo di maturità classica spacciava volantini per strada nella Sicilia occidentale in orario scolastico. “La vota la Borsellino?”, era la domanda posta in loop ai passanti. “Ma chi la figlia del giudice?”. “Sì, lei”. “Non lo so”. “E perché non lo sa? È meglio Cuffaro?”. “No, a me Cuffaro non piace molto”. “E allora?”. “ E allora non lo so: questa Borsellino vince?”. Capite: Lo volevano sapere prima dell’elezioni se Rita avesse vinto o meno. Non dopo: prima. E per la cronaca, no, Rita – e tutto quello che rappresentava – non avrebbe vinto. Non avrebbe vinto mai.

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