Arrivo alle dieci in treno a Bruxelles, prendo un taxi per andare a una riunione della Commissione Europea, il tassista è un ragazzo giovane e magro, barba estremamente ben curata, occhiali scuri. C’è traffico, siamo in coda dietro a un camion che trasporta biciclette. L’urbanistica confusa di Bruxelles non lascia capire se siamo intrappolati in una coda o se c’è solo da aspettare che il camion avanzi.
Il tassista si spazientisce, suona a più non posso, poi devia sulla corsia di destra, sorpassa tutti accelerando all’impazzata fino ad arrivare a un semaforo, verde per noi e rosso per i pedoni, dove un povero vecchietto sta attraversando, e travolgerlo. Frena con tutte le sue forze, ma il vecchietto è già sotto la macchina. Io dietro, terrorizzata, sbatto contro qualcosa di duro i mezzo i sedili davanti e mi faccio un gran livido sulla gamba destra. Urlo: “Ma cosa fa? E’ matto??”. Intanto lui è sceso per vedere lo stato del vecchietto che si rialza, si risistema un po’ e dice che non si è fatto nulla.
Esco anche io saltando su un piede solo per assicurarmi che stia bene. Dico al tassista cosa gli ha preso. Lui mi risponde: “Lei mi deve rispettare. Tutti mi devono rispettare”. Dico che prendo il numero del taxi e chiamo la centrale. Lui mi risponde “Chiami pure la centrale. Io non sono schiavo di questo lavoro, non sono schiavo di nessuno”. Mi guarda fisso negli occhi. Gli dico: “Mi sono fatta male. Avrebbe dovuto scusarsi e chiedermi come sto invece di mettersi a inveire sul rispetto. Potrei essere sua madre”. Risponde ancora più scandalizzato: “No, lei non potrebbe essere mia madre. Nessuna donna in questo posto potrebbe essere mia madre”. Dico scocciata: “Ora la pianti e mi porti alla mia riunione che sono già in ritardo”. Lui mi risponde che lui vuole essere rispettato. E che io, come gli altri in quella città, non lo rispetto. Gli dico che non sono di Bruxelles, che sono italiana e che anche a me è successo a volte di non sentirmi rispettata in certi posti, ma non per questo ho tirato sotto qualcuno con la macchina.
Lui ferma il taxi. Blocca le sicure. Poi, per fortuna scende e mi dice: “Fuori dal mio taxi”. Io esco e rimango come un’idiota in mezzo a uno stradone di Bruxelles, sempre saltellando su una gamba sola. Arriva un altro taxi che mi porta a destinazione, gli racconto l’accaduto, avverte la centrale, chiacchieriamo, è anche lui un mediterraneo, ci diciamo che abbiamo tutti lo stesso temperamento nel Mediterraneo. La conversazione mi consola. L’odio freddo del primo tassista, il mantra – chiaramente istruito da qualcuno – del rispetto, viene ora riparato dal calore mediterraneo delle chiacchiere col secondo guidatore.
Entro nella mia riunione dove resto fino alle quattro del pomeriggio, per poi prendere questa volta la metropolitana per la stazione.
Il treno Thalys che mi deve riportare a Parigi è pieno di polizia. Una sparatoria è in corso a Forest, un comune della periferia di Bruxelles. L’atmosfera in città era in effetti tesissima, come mostra l’episodio del tassista. In metropolitana, una donna belga a cui chiedo gentilmente in francese: “Lei scende a questa fermata?”, si rifiuta di rispondermi. Ripeto. Non risponde. Ripeto. Mi dice in inglese, aggressivamente: “Io non parlo francese e non parlo con i francesi”. Parla evidentemente fiammingo.
Sulla metropolitana le facce sono grigie, tristi, tanta gente che viene da culture diverse in un mix che però non “prende”. Bruxelles è l’anti-Londra o l’anti-New York, dove non ti accorgi neanche del colore della pelle o dei capelli del tuo vicino in metrò o dell’accento con cui parla, o di come è vestito.
Se l’integrazione all’europea ha come risultato le facce smorte di Bruxelles, si capisce perché gli europei ne siano spaventati. Perché in Europa l’identità è così importante? Cosa si ha paura di perdere? Perché quel tassista crede che nessuno lo rispetti? Ma davvero abbiamo cominciato a guardarci tutti in cagnesco, con sospetto, nemici uno dell’altro, tutti profughi dal paradiso di un’identità che non esiste, che forse è nella nostra infanzia, nei gusti antichi, i sapori, gli odori, le parole, ma che l’essere-nel-mondo ci fa perdere e rinegoziare inevitabilmente?
Finché non capiremo come si fa a mescolarsi nel modo giusto e come le differenze identitarie, culturali ed economiche possono convivere, l’Europa sarà destinata a quel grigiore nelle strade di Bruxelles. La famosa copertina del settimanale tedesco Der Spiegel negli anni Settanta con la P38 e gli spaghetti dovrebbe oggi essere rifatta con le patatine fritte e i kalashnikov a segnalare che nessuna cultura è protetta dalla violenza quando la rivendicazione identitaria diventa odio l’uno per l’altro.