E' uno strano scherzo del destino che questo film oramai datato settembre 2014 abbia dovuto attendere un anno e mezzo per essere visto in Italia. Love and Mercy è l’ascolto possibile di quelle “voci” che Wilson sentiva fin dagli anni sessanta. A lui il peso del tormento della creazione. A noi la sua musica. Massimo rispetto
“Sento delle voci nella testa”. E meno male. Altrimenti non avremmo avuto Pet Sounds, album invidiato dai Beatles, e almeno un’altra dozzina di capolavori della storia della musica firmati Brian Wilson, e in subordine Beach Boys. Il risultato era già chiaro quando negli anni di formazione casuale musicale incontrati Wouldn’t It Be Nice, God Only Knows e il pezzo strumentale Pet Sounds dopo il trasalimento iniziale le tracce venivano replicate decine di volte nelle nostre orecchie. A rafforzare la tesi della genialità compositiva di Wilson, ma soprattutto del suo drammatico appassirsi e relativo disturbo psichico tra gli anni sessanta e ottanta è dedicato il film Love&Mercy di Bill Pohlad, autore sostanzialmente all’esordio dietro la macchina da presa, conosciuto invece più come produttore di Into the wild, The tree of life e 12 anni schiavo.
La doppia dimensione temporale dei mesi in cui Pet Sounds venne composta – fine del 1965 e inizio del 1966 – come lo sprofondo depressivo con Wilson alla mercé dell’infingardo psicoterapeuta dottor Landy durante gli anni ottanta, sono i binari paralleli e continuamente intersecati di Love&Mercy. Là, l’origine del mito e della creazione del suono con i primi segni di squilibrio inglobati al contesto creativo; qua, più vicino a noi il sostanziale oblio commerciale, l’acuirsi della tragedia, la caterva di farmaci pesanti che distruggono Wilson e infine la sua faticosa risalita grazie alla bella e coraggiosa venditrice di Cadillac e dolce innamorata Melinda Ledbetter (una deliziosa e coriacea Elizabeth Banks).
Il film di Pohlad è un biopic poco convenzionale, più attento all’introspezione, allo scavo, al recupero di frammenti sonori, musicali e mentali del protagonista. Un lavoro che si sviluppa con estremo garbo tra i due poli temporali e interpretativi del leader dei Beach Boys. La scommessa, vinta, è infatti la scelta di avere due attori per le due differenti epoche ritratte, due star come Paul Dano e John Cusack, piuttosto differenti a livello somatico l’uno dall’altro, come da Wilson stesso. Nulla di eccezionale, si dirà. Ma è proprio immaginando il contrario, il peso del “trucco e parrucco” di Dano invecchiato, che emerge la robusta connotazione dell’inadeguatezza personale del protagonista caratterizzata invece che dalla somiglianza con l’originale, dalla sua sensibilità ed interiorità oltre i corpi usati per interpretarla: sia all’interno della band che non comprende la ‘svolta’ musicale del 1966; sia quando Brian, larva di uomo maturo, viene schiavizzato da un dottore (Paul Giamatti, in un’interpretazione sinistra come in Straight Outta Compton) che gli fa da tutore su quello che mangia e ascolta, fino a presenziarne gli incontri ‘privati’ tra lui e Melinda. Love and Mercy diventa così la matrice genetica di Wilson, la cifra del suo dolore, della sua fatica e del suo pianto, della malattia che lo separa dagli altri e ne annienta lo slancio verso il mondo. In questo Pohlad e l’ottimo sceneggiatore Oren Moverman, non barano anzi, è come se ci vivessero dentro da sempre a questa storia di padri ingombranti, di sfiducia in se stessi, di paura di scegliere.
La ricostruzione dell’epoca anni sessanta, con camicie fiorate, surf sottobraccio, e capelli a caschetto, ha un tratto sicuro e mai eccessivo. Questa continua reiterazione dello spazio basico della creazione, la sala di registrazione di Pet Sounds, diventa poi qualcosa di immenso e stratosferico a livello di senso per l’intero film. La macchina da presa a mano, contrariamente ai tanti cavalletti piazzati per il bordone anni ottanta, restituisce una vita e un battito ritmico intimo di Wilson proprio in mezzo all’eterogeneità di strumentisti e colleghi della band (a proposito Mike Love di musica non ci ha proprio mai capito niente). E nel perpetuo dinamismo dell’esecuzione, mai legata allo sbrodolo didascalico della presentazione dei coprotagonisti (bastano alcuni sfuggenti primi piani come quello alla storica bassista turnista Carol Kaye) che si distinguono sia la meticolosità del compositore (i 32 takes per un ‘ponte’ di violoncelli, gli ululati registrati di beagle e weimaraner) che i riferimenti possibili della regia (un movimento di macchina a 360 gradi che ricorda Godard in Sympathy for the devil con i Rolling Stones). Insomma, è uno strano scherzo del destino che questo film oramai datato settembre 2014 abbia dovuto attendere un anno e mezzo per essere visto in Italia. Love and Mercy è l’ascolto possibile di quelle “voci” che Wilson sentiva fin dagli anni sessanta. A lui il peso del tormento della creazione. A noi la sua musica. Massimo rispetto.