Il governo ha annunciato martedì l’avvio dei lavori per consultare il Paese canone-pagante attorno al servizio pubblico radiotelevisivo e, va da sé, multimediale. Dalla cronaca, pare che la consultazione on-line sarà preceduta da un cospicuo lavoro di messa a punto delle domande ad opera di un largo stuolo di esponenti di gruppi e associazioni che dei media da tempo si occupano sotto diversi profili: democrazia, industria, cultura, commercio, costume, eccetera. È piuttosto chiaro del resto che una consultazione allargata a tutti gli italiani, se vuole essere minimamente credibile e praticabile, deve mettere a fuoco le domande per consentire a chi risponde di dare un filo alle sue risposte.

Riuscirci non sarà semplice, anche perché nei decenni passati su tutta la questione del Servizio Pubblico radiotelevisivo si è lasciato che le parole si separassero dai contenuti e che una fitta nebbia semantica rendesse impossibile a chiunque di raccapezzarsi e giudicare. Un esempio e una domanda, fra le varie che incombono: cos’è secondo voi un programma “di servizio pubblico”? Si tratta di: 1) un genere di programma, magari caratterizzato da contenuti molto popolari (una partita di calcio, Sanremo, eccetera) e/o molto utili (il meteo, il telegiornale, il ritrovamento di scomparsi); 2) l’esistenza stessa di una azienda pubblica, come in Italia è la Rai oppure, come in Inghilterra, di un sistema di aziende, pubbliche e private, fortemente regolate dalla mano pubblica e definite nel loro insieme PSB, Public Broadcasting Service?

Se la vostra risposta fosse la prima, il “servizio pubblico” subirebbe l’effetto spray, riguarderebbe il panorama dei programmi e non quello delle aziende e, a farla breve, chiunque faccia un telegiornale, trasmetta una partita di calcio e si dedicasse a ritrovare gli scomparsi potrebbe reclamare la sua parte di canone. Ovviamente, questa è la dottrina delle tv locali e di qualsiasi imprenditore televisivo in sofferenza di bilancio. Ma perfino dentro la Rai degli anni scorsi c’è stato chi, per meglio garantire il budget dei suoi titoli, avrebbe voluto che fossero distinti dal bollino di “programma di servizio pubblico”.

Se la vostra risposta fosse la seconda, probabilmente siete di quelli che sanno che le aziende radiotelevisive pubbliche sono nate (per prima la Bbc) per esplicite ragioni di protezionismo industriale e culturale nei confronti del dominante show business Usa, salvo condire il tutto con massicce dosi di retorica pedagogica e paternalistica a tutela di questo o quel “valore”. Il protezionismo è servito, altrove molto meglio che da noi, a garantire l’esistenza della capacita narrativa nazionale, con i conseguenti e ultra pregiati (come qualità più che come salario, posti di lavoro dell’industria culturale. A dirlo brutalmente, il “servizio pubblico”, al contrario della prima ipotesi o si incarna in una azienda connessa a un campo industriale o tanto varrebbe usare il canone per abbonarsi a Netflix. Nel nostro piccolo, aspettiamo le risposte.

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