Basta scorrere i titoli dei giornali russi: che essendo tutti nell’orbita del Cremlino, riflettono il pensiero dello Zar. La Russia non riconosce il ritiro dalla Siria come una sconfitta. Ma come una vittoria: “Stimolerà il processo di pace”. Putin non è quel guerrafondaio dipinto dall’Occidente, ma uno che sa guardare avanti, e agire quando è necessario. Mosca ha tenuto in piedi Assad, per garantire una parvenza di stabilità: si è visto cosa è successo in Iraq, liquidando frettolosamente il regime di Saddam Hussein. Si è visto quel che è successo in Libia dopo la morte di Gheddafi. Così, la Russia ha costretto Assad alle trattative con l’opposizione: non è questa una vittoria, dopo cinque anni di caos, terrorismo e rischio di guerra mondiale?
Dunque, guardiamo i fatti, dicono a Mosca. Mentre l’Occidente ciancicava e la Siria precipitava nell’inferno più totale, la Russia è intervenuta con decisione. Senza farsi condizionare dalla solita indecisione degli europei, sempre divisi, e degli americani. Il 30 settembre 2015 i cacciabombardieri russi cominciarono a colpire le postazioni dei ribelli anti-Saddad e, in minore misura, quelle dell’Isis. Putin lasciò di stucco le cancellerie di tutto l’Occidente, e spiazzò clamorosamente la Casa Bianca. Il copione si è ripetuto la sera del 14 marzo 2016, con l’annuncio del ritiro (seppur parziale) delle sue truppe, salvo mantenere la rafforzata base navale di Tartus e quella aerea Kmeimin, vicino Latakia, nuovo caposaldo di Mosca nel Medio Oriente e nel Mediterraneo.
Per molti osservatori, quella di lunedì 14 marzo è “la svolta” di Putin. Lui ha usato una frase da film: missione compiuta. Magari non del tutto, “la maggior parte” degli obiettivi prefissati sono stati raggiunti in 166 giorni di attacchi e bombardamenti. L’attività aerea russa diminuirà, pure quella della base navale. Però adesso è tempo di colloqui. Di trattative. Di negoziati. Si passa dai mitra alle parole. Continueremo a combattere i terroristi dello Stato Islamico. Gli Stati Uniti incassano. Storcono la bocca. Palesano scetticismo: “Vedremo”.
Ecco, è in quel vedremo che si misurano le conseguenze della “svolta”. Perché in realtà, più che una svolta, è un’astuta mossa ad effetto. Il che ruga agli americani, padroni della manipolazione mediatica, inventori della pubblica opinione come strumento politico, sovrani della comunicazione. Putin li ha battuti sul loro terreno preferito: la sua mossa, infatti, è politica. Mica militare: gran parte degli aerei mandati in Siria ci restano. Anche gli “istruttori”. Tornano a casa marines e truppaglia. Riduzioni tattiche. Quel che conta di più, per Putin, è ben altro. E’ lui a scandire il ritmo della crisi siriana. E’ lui il regista del processo di pace. Senza di lui, non ci sarebbero i negoziati (ricominciati guarda caso proprio il 14 marzo a Ginevra) tra Bashar al-Assad e i ribelli moderati.
Washington abbozza. Come scrive il New York Times, prevale la cautela: spesso quel che afferma Putin – vedi il caso dell’Ucraina – non trova riscontro sul campo. E’ uno spregiudicato. Di certo Obama, dopo la telefonata con la quale veniva informato dallo stesso Putin della sua decisione, è stato piuttosto guardingo, nell’esprimere la soddisfazione per la prospettiva della riduzione delle violenze in Siria: “Le continue azioni offensive da parte del regime rischiano di compromettere il processo politico”. Non solo. Obama ha chiesto “pieno accesso” per gli aiuti umanitari, sinora ostacolati da Damasco, e soprattutto ha ribadito che “la transizione politica è necessaria per mettere fine alle ostilità in Siria”. Chiaro il messaggio recapitato al Cremlino: la normalizzazione in Siria non ci sarà se Assad resterà al suo posto. Cosa vuole per davvero Putin?
Il presidente russo gioca un’ambiziosa partita doppia geopolitica. Con l’Occidente, che lo ha sanzionato per la Crimea e il Donbass. E con gli alleati regionali di Nato e Stati Uniti: Israele, Arabia Saudita, Turchia. L’annuncio del ritiro è plateale. Significa: sono io il regista dei negoziati. Confido nella stabilità di Assad, e sono in grado di far pressione su di lui per negoziare con gli avversari. Non lo lascio alla mercé dei nemici: ad appoggiarlo ci sono Hezbollah e l’Iran, senza dimenticare le nostre basi, pronte a mobilitarsi per qualsiasi eventualità. Abbiamo portato a termine la nostra missione, abbiamo fatto riconquistare a Damasco 10mila chilometri quadrati. Dopo cinque anni di devastazioni, è venuto il momento di voltar pagina. Ecco, a voltare quella pagina sarò io. Vi fornisco una carta per navigare nella complessità di questa intricata situazione. Per risolvere la crisi ed affrontare l’emergenza umanitaria.
Putin il Negoziatore si sta dimostrando un maestro della creatività flessibile: nella ricerca di una soluzione, insegnano i teorici delle negoziazioni, il pensiero creativo può dimostrarsi appropriato. Serve a prendere tempo, a ragionare cioè per analizzare il contesto prima di formulare dei veri e propri punti di negoziazione. L’imprevisto è sempre in agguato: la tregua, per esempio, entrata in vigore lo scorso 27 febbraio, ha resistito in qualche modo e oltre ogni aspettativa. Tuttavia, è sempre un accordo assai precario, basta un niente per sabotare l’iniziativa di pace. Strutturalmente il tempo sta dalla parte del negoziatore. Putin ha in mano qualche carta da giocare. Mentre Mosca dava l’annuncio del ritiro, l’Itar-Tass – agenzia di stampa governativa – riportava, a firma Alexei Borovavkin, che presso la base aerea russa di Hmeimin c’era stato un incontro con un nuovo gruppo dell’opposizione siriana “che non ha preso parte alla lotta armata contro Assad” (puntualizzazione significativa), tra i quali alcuni esponenti curdi “finora esclusi dai negoziati”. E‘ un “piano B” del Cremlino? Di certo, il presidente russo vuole dimostrare che è pronto a vedere “oltre” Assad.
Ed è qui che le cose si aggrovigliano. Avere aperto ai curdi, può sollecitare reazioni turche, specie dopo l’attentato di Ankara, il terzo in pochi mesi. Uno degli scopi di Mosca, oltre al salvataggio di Assad, era quello di blindare le frontiere siriane con la Turchia, ed infatti via via che l’intervento aereo di Mosca si intensificava, gli sforzi si concentravano sul settore a nord di Aleppo, per spezzare i rifornimenti di armi ai ribelli sunniti: questi attacchi sistematici avevano di fatto impedito i primi negoziati di Ginevra, a fine gennaio. L’esercito siriano, e i curdi, sono avanzati a nord di Aleppo. Ma la frontiera con la Turchia non è stata neutralizzata. Così come le conquiste a nord di Latakia – caposaldo degli Assad – restano militarmente fragili. Il 2015 ha visto emergere una nuova entità ribelle, “l’Esercito della Conquista”, un raggruppamento di parecchie formazioni sostenute da Arabia Saudita, Qatar e Turchia in cui è confluito Ahrar al-Sham, sostenuto da Ankara, e il Fronte al-Nusra, considerato una filiazione di al-Qaeda. L’Esercito della Conquista ha respinto l’esercito siriano della provincia di Idlib. Nondimeno, è una coalizione che fa concorrenza all’Isis, tuttora meglio organizzata, più ricca, più feroce, più compatta. I raid degli Stati Uniti e dei suoi alleati hanno indebolito l’Isis, su questo non ci piove. Quelli russi sono stati mirati principalmente sugli oppositori del regime di Damasco. La tregua, in teoria, potrebbe ridare ossigeno a chi combatte l’esercito siriano.
Allora perché questa mossa a sorpresa del ritiro? Intanto c’è il sospetto che sia solamente una opzione tattica. Dettata da realpolitik. E anche da problemi economici: quanti miliardi ha già speso la Russia in questi cinque mesi e mezzo di “missione Siria”? Se lo può permettere, in un momento di grosse problematiche economiche e finanziarie, aggravate dalla criti petrolifera e dalle sanzioni? Inoltre, c’è il nodo dell’Arabia Saudita. Re Salman aveva prospettato, a fine gennaio, l’intervento del suo esercito entro due mesi, per schierarlo a fianco dei ribelli sunniti. E di volerlo fare anche “se solo col consenso degli Stati Uniti”. Non a caso, nei giorni scorsi, c’è stato un fitto intrecciarsi di telefonate fra Salman e Putin. Il ritiro potrebbe essere un gesto di “buona volontà”, e l’Arabia Saudita potrebbe scansare un escalation pericolosa: Teheran non starebbe a guardare. L’esercito dell’Arabia Saudita è dotato di armamenti di ultima generazione, principalmente forniti dagli Usa, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Quello dell’Iran è agguerrito ma tecnologicamente inferiore, Mosca ha appena firmato un mega accordo di 8 miliardi di dollari per adeguarlo alle necessità di una difesa in uno scacchiere così instabile.
Resta lo scoglio di Assad. Quello di una transizione “morbida”, che il capo del regime siriano dovrebbe gestire personalmente. Una transizione controllata da Putin, tenuto conto di un certo disimpegno americano. Ma Damasco ha già messo le mani avanti: l’uscita di scena di Assad “non è sul tavolo delle trattative”, lo ha detto l’ambasciatore siriano all’Onu, Bashar Jaafari, che guida la delegazione governativa a Ginevra e che ha incontrato Staffan De Mistura. Assad, ha fatto sapere il portavoce Dmitri Peskov, nella telefonata di Putin col leader del regime di Damasco, ha lodato “la professionalità e il coraggio” delle forze russe e ha espresso la “sua profonda riconoscenza”, mentre il presidente russo non avrebbe “evocato la sorte” di Assad, bensì la necessità di cominciare “un processo di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite”, giacché “le condizioni attuali” lo permettono. Parole piuttosto misurate. Che non hanno convinto più di tanto l’opposizione siriana. Vogliono constatare sul terreno se si tratta o no di un’azione positiva quella di ritirare le forze russe. E in che misura. Prevale la diffidenza. Il rischio è di avviare il solito dialogo tra sordi.
Non senza motivo. L’ong Osdh, vicina al fronte dei ribelli, è anche l’unica che sia stata in grado di quantificare i numeri della guerra, dopo cinque anni di orrori e di caos. E sono cifre per difetto: 271.138 morti, di cui 79106 civili (fra i quali 13500 bimbi e 8760 donne). Tredici milioni di persone, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu, sono rimaste senza casa, ossia più di metà della popolazione che all’inizio del conflitto era di 23 milioni di abitanti. C’è stato un esodo senza precedenti. La Turchia ospita 2.750 profughi. Il Libano 1,5 milioni. La Giordania ne dichiara ufficialmente 640mila, in realtà sarebbero 1,4 milioni; 260mila sono in Egitto, 250mila in Iraq, 50mila in Africa del Nord. Per sminare il territorio occorreranno almeno trent’anni. Per ricostruirlo, mezzo secolo.