Eccoli, gli ultimi illusi: Salvini e la Meloni, Salvini più della Meloni. Credevano fosse solo questione di tempo, che lui fosse lì lì per cedere, avvilito dai sondaggi neri neri. Che bastasse prenderlo sotto braccio, giusto il tempo di accompagnarlo all’uscita, da questa parte, Silvio, appoggiati a me. Che si accontentasse di fare il padre nobile come ha detto centinaia di volte e fatto mai, mentre continuava a premere pulsanti e a tirare leve, metti giù le mani, Silvio, stai buono. A dirigere, a comandare, come ha fatto tutta la vita, a dire l’ultima, ora poi che ha 80 anni, ad ascoltare se stesso. Eppure loro lo sapevano: pur di restare dov’è da 22 anni, ha fatto fuori Casini, Fini, Alfano e Fitto lasciando al loro collo un cartello con scritto traditore e bricioli di voti. Ma niente: Matteo e Giorgia, Matteo più di Giorgia, avevano concesso all’anziano leone di salire sul palco di Bologna – erano 5 mesi fa – mentre lui ormai sembrava finito, sfiancato, con in mano Forza Italia ridotta ai minimi storici, destinato a quella fine che per anni quelli di sinistra e poi Fini e Alfano e poi i grillini avevano previsto, sperato: “Game over” come disse senza troppa convinzione Matteo Renzi dopo la condanna in Cassazione e prima di farci insieme l’accordo degli accordi.
Dai, vieni con noi, gli dissero Salvini e la Meloni a Bologna, ma stai buono qui: ci hai insegnato tante cose, ma ora tocca a noi. I quarantenni della destra, siamo come Renzi, parliamo su Twitter, alla Zanzara. Un po’ Le Pen e un po’ La Russa, tricolore e Veneto indipendente, trattori, family day e marò, Putin e benzinaio Stacchio. La piazza leghista, quel giorno di novembre, aveva respinto il vecchio leone, il solito discorso formato Kruscev era stato coperto di buuh, sbadigli e mezzi fischi. Salvini lo aveva quasi spintonato via, strappandogli il microfono per infiammare la sua gente. “E basta con sto ’94” gli disse. Ma – proprio come la sinistra, come Fini, come i grillini – anche il segretario della Lega quel giorno fu abbagliato da un miraggio. Vide, sì, il leader di centrodestra quasi ottantenne, un po’ pencolante, affaticato sulla soglia dell’uscita. Ma senza capire che era di nuovo una porta girevole. Il palco di Bologna, dove Berlusconi salì da fantasma, fu il suo nuovo tappeto elastico. Ha avuto l’effetto, a vederlo oggi, di un altro patto del Nazareno: le ceneri e la nuova vita, Cocoon, per l’ennesima volta.
Quell’abbraccio, la foto di Bologna, era solo il preludio all’ennesimo dramma familiare nel centrodestra, che a Roma si fatica a capire se si è trasformato in tragedia o in farsa. Il movente: cambiare il comando, cambiare la strategia. “La corsa più pazza del mondo” l’ha chiamata la Meloni. Rottamazione, avrebbe detto Renzi. Gli psicanalisti opterebbero per “uccidere il padre“.
Non è la prima volta che Salvini e la Meloni uccidono il padre: il leghista era tra i più veloci ad agitare le scope nella serata di Bergamo della primavera 2012, quando Maroni urlava Chi sbaglia paga! e lì dietro c’era Bossi che aveva avuto il balcone di Gemonio ristrutturato con i soldi per gli opuscoli con Alberto da Giussano. La presidente di Fratelli d’Italia, invece, non aveva mosso un muscolo due anni prima, quando Gianfranco Fini e la sua piccola pattuglia lasciarono il Pdl e il governo. Rimase al governo, immobile. L’ex presidente della Camera se lo ricorda ancora: “Ridicola, ingrata, si è montata la testa” l’ha tratteggiata con una vena di nostalgia un mese fa. Ma lì sapevano che era presto, che dovevano aspettare. Salvini doveva far passare Maroni, alla Meloni bastava il record di ministro più giovane della storia italiana. Ma ora basta. Lui ha 43 anni e guida il primo partito del centrodestra, lei 39 e dopo quell’esperienza di ministro mai una gioia: cosa abbiamo meno di Renzi, perché non possiamo essere come lui? Perché non può parlare la sua lingua ormai fuori dal tempo (“Storace è un buontempone” ha detto l’altroieri) nella sua casa di Antigua, a Milanello, a Cologno?
Ha impiegato un mese e 5 giorni, Salvini, ma alla fine l’ha fatto, spinto anche da mezzo partito che ribolliva. Ora grida che non voleva, come in tutti i parricidi, che è stato provocato, che gli dispiace. Che non c’ha più visto. “Mi dispiace di avere un po’ litigato, in questi giorni, con Silvio Berlusconi, avevo chiesto di candidare persone nuove, pulite, ma lui fa fatica a capire come questo sia importante”. Parla come uno che ha appena commesso un fallo di frustrazione, che come unica strategia vede quella di liberarsi del fardello il prima possibile.
Ha creduto di avere avuto voce in capitolo, almeno ora che i voti gli danno ragione. Invece no, quello – Berlusconi – non molla, resiste, si impunta. Sembra il D’Alema di destra: sputa veleno. Ma a differenza di D’Alema non è stato messo da parte. Decide, pretende di dispensare sicurezze, come 10 anni fa. A Torino ricicla dagli esclusi del 2013 Osvaldo Napoli, un democristiano di 72 anni, parlamentare per 12, sindaco sempiterno di un paesino di mille abitanti, sempre fresco di lampada. Mai un bell’urlaccio in tv, mai una vena ingrossata. Anzi, tanti amici dentro l’Anci (che alla Lega sta qui). Uno di quegli amici è Fassino (a sua volta sostenitore di Renzi), che Napoli sostenne subito – come nemmeno il Pd – in un’eventuale corsa al Quirinale. “Pulito”, come li vuole Salvini, ma un volto d’antiquariato. L’operazione Parisi – il miracolo a Milano, da Igor Iezzi a Lupi – sta da tutt’altra parte.
A Roma Berlusconi fa peggio. Ripesca Bertolaso dal baule dei pupazzi dell’infanzia – quando eravamo giovani e forti, ricordi Silvio quella volta? -, un fumetto della storia berlusconiana, con i suoi processi, i suoi massaggi, il suo terremoto. La Meloni si fa convincere, Salvini no. Chiede le primarie, tutti i giorni. Ignora Bossi, ignora Maroni: vorrebbero l’amore eterno con i forzisti. Berlusconi si batte con un’energia di altri tempi, paga fino all’ultimo centesimo la sua riconoscenza a Bertolaso, quel compagno di mille battaglie, tutte perse. Sfida il ridicolo: “Quando ci vedono arrivare all’Aquila siamo accolti come la Madonna e il Bambin Gesù“, Bertolaso “non è un professionista del bla bla bla” (mentre è sotto processo proprio per un bla bla bla una settimana prima del terremoto), “un fuoriclasse”, “un regalo ai romani che faranno i salti di gioia”, che ha “corteggiato per tre mesi” e che al confronto qualunque politico sarebbe da “ridergli in faccia”. Riesce a dire che i leghisti a Roma sono tutti ex fascisti, cioè quelli con cui ha fatto tre governi.
Il fuoriclasse nel frattempo ne combina una al giorno, parla e rettifica, poi ricambia, riparla, inciampa, si corregge e ricambia. E’ un percussionista delle contraddizioni, non si stanca mai. Dice che se non corresse con la destra, maledizione, voterebbe Giachetti. Che non ha mai votato il centrodestra. Che i rom “sono una categoria vessata e penalizzata”, quando la Lega prende i voti proprio perché li vuole spedire a trecento pianeti da qui. “Bertolaso mi fa tenerezza – dice a un certo punto Storace – Ogni cosa che dice è sbagliata. Sembra una persona che tutti schiaffeggiano, ma se la sono cercata”. Eppure Berlusconi si comporta come se avesse ancora il 35 per cento: “Mollalo Salvini, Silvio! – gli urlano – E’ un pappone“, “non ha tutti i torti” risponde lui. E poi, sottile, sotterraneo, il sospetto che da lontano gli sguardi dei nazareni ancora si incrocino. Salvini s’incazza sempre di più, la Meloni si fa sempre più silenziosa, imbarazzata. “Mi sembra che la candidatura di Bertolaso sia stata fatta da Berlusconi per fare un favore a Renzi” insiste Storace. E poi c’è Mediaset che con il governo Renzi sembra fare affari d’oro.
Ecco il fallo di frustrazione, allora. Il tradimento necessario, come quello più celebre. Serve rovesciare il tavolo addosso al capo. Bertolaso infila l’ennesima: la Meloni deve fare la mamma. Poi si corregge: è una battuta. No, precisa, non era una battuta. Berlusconi lo difende, ma è solo. Ai tempi d’oro qualche Bondi l’avrebbe contestualizzata. Oggi c’è un’altra lingua da parlare, altri occhi per vedere. Berlusconi e Bertolaso scoprono all’improvviso che i loro anni Ottanta sono finiti. Così la Meloni si fa convincere una volta per tutte. Salvini capisce che è il momento. Roma e Torino, ex secessionisti e nazionalisti forever: i due colpi assestati al corpaccione che sembra non morire mai. Altri due colpi, magari questa volta capisce, magari questa volta molla, magari questa volta si decide. “Ecco come si divora una balena. Un morso alla volta” dice Frank Underwood. Va molto di moda. Il Cavaliere, un tempo imperatore di tutte le tv, forse non sa nemmeno chi è. Ma di sicuro se ne sbatte.