Cinema

Frankenstein, il classico dell’horror diventa pop. Finale così kitsch da applausi a scena aperta

In uscita il 17 marzo in Italia per Barter Enterteiment la nuova rilettura dell'opera di Mary Shelley è fin dalle prime sequenze un revival camp che ricorda la passionalità artigianale di tutta quella philia horror che aveva fatto del ritrovamento di mezzi come lo splatter e il gore una soluzione estetica per mostrare un’alternativa al linguaggio dominante

di Davide Turrini

Ritorna Frankenstein ed è subito ‘grand guignol’. C’è poco da ripararsi dagli schizzi di sangue che provengono dal film di Bernard Rose, Frankenstein, in uscita il 17 marzo in Italia per Barter Enterteiment. Perché la nuova rilettura del classico di Mary Shelley è fin dalle prime sequenze un revival camp che ricorda la passionalità artigianale di tutta quella philia horror che aveva fatto del ritrovamento di mezzi come lo splatter e il gore, la profusione di sangue ed emoglobina, di cervella spappolate e bubboni purulenti pronti a scoppiare, una soluzione estetica per mostrare un’alternativa al linguaggio dominante.

Non che l’autore di Candyman (1992) rappresenti la rivoluzione formale del cinema; però questa sua beata noncuranza, anzi questo suo vero e proprio menefreghismo, rispetto ai compitini dell’orrore regolari e riconoscibili di qualsiasi finto indipendente hollywoodiano, è un dato di fatto. Frankenstein è intanto un film totalmente indipendente: nessuna grande major si è avvicinata al film, sbagliando, e la distribuzione (in contemporanea in Usa) non sarà di certo faraonica. Poi riattualizza in modo molto pop la tradizionale diversità del mostro con la calotta cranica divelta (qui prima che accada la reazione del soggetto è piuttosto veemente), vere e proprie stigmate cancerogene che costringono i suoi medici creatori (Viktor – Danny Huston – ed una imprecisata mamma dottoressa – Carrie-Anne Moss) a un omicidio in piena regola, giù in un sotterraneo super attrezzato di flebo, lettini e siringone che pare un set di un porno fetish. Solo che il cuore comunque addolorato spinge la mano ad esser debole e il giovane e virgulto ragazzone non crepa facilmente. Inutili le torture, le botte delle guardie giurate, le scariche elettriche dei taser: Adam, il mostro, interpretato da un warholiano Xavier Samuel, più Joe Dalessandro ed Helmut Berger che Boris Karloff, resiste a tutto, anche alle sevizie e alla bastonate dei cittadini inferociti che lo accolgono nei sobborghi di Los Angeles come fosse un reietto.

Solo un cane (SPOILER) gli si affeziona (e fa una brutta fine), una bimba (pure), un homeless nero e cieco (anche). Intanto il volto di Adam si gonfia e trasfigura sempre più. Incappucciato, coperto, nascosto come il gobbo di Notre Dame scappa, sfugge, finisce sul letto di una prostituta (anche lei non regge ai bugni orrendi e deformi del ragazzo), fino alla U-turn narrativa decisiva: tornare a casa dai propri creatori, tutti belli e lindi in una villa bianca bianca, intenti al gioco erotico del dottore col paziente. Inutile dire che il finale riserva una volontaria sorpresa così apertamente e straordinariamente kitsch da applausi a scena aperta.

L’anima infantile del mostro (peccato che il doppiaggio italiano di Adam acuisca inevitabilmente la monodimensionalità dei suoi versi), con tanto di comprensione della fisicità e del sesso visto da uno smartphone, è la chiave di volta interpretativa di una storia che non concede nulla all’azione e alla spettacolarizzazione concentrandosi sul quadro ristretto dell’interazione mostro/uomini che sprigiona sangue in ogni dove, e ad ogni cambio scena. Adam è nato in provetta, frutto di errori genetici generati dall’uomo e dall’uomo respinto fino ad essere sacrificato. Frankenstein versione 2015 è così un piccolo e semplice oggetto artigianale che rinvigorisce il mito affidandosi finalmente, dopo tante versioni del mostro ieratiche e solenni in costume, all’horror puro. Bernard Rose, oramai abituato alla marginalità produttiva, fa tutto: regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio.

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