“Quello che è accaduto a noi, è in realtà un avvertimento a tutta la stampa turca: se agite così, finirete in prigione”. Can Dundar strizza appena gli occhi mentre parla. Indossa giacca e cravatta scura e camicia bianca. Sembra rilassato, nonostante i giorni passati in carcere: “Non è tanto perché abbiamo parlato della Siria – racconta a IlFattoQuotidiano.it – che certo è un nervo scoperto, è soprattutto un messaggio che Erdogan invia a tutti i media. A lui non piace essere criticato”.
Non ha perdonato al Cumhuriyet, il quotidiano più antico della Turchia, laico e antigovernativo, del quale Dundar è direttore, il famoso reportage sui presunti aiuti ai gruppi jihadisti in Siria. L’inchiesta è corredata da foto e, nella versione online, da un video che mostra camion pieni di armi pronti a passare il confine sud e punta il dito sui discussi legami di Ankara con i ribelli islamisti. Per questo Dundar e il caporedattore Erdem Gul sono stati arrestati con l’accusa di spionaggio e tradimento. Liberati dopo 90 giorni, grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale che parlava della violazione dei loro diritti, devono affrontare un processo nel quale rischiano l’ergastolo.
Erdogan ha specificato di non rispettare la sentenza. “Il processo – ha detto – non ha nulla a che vedere con la libertà d’espressione. E’ un caso di spionaggio”. Stessa linea quella del premier Davutoglu che ha dichiarato: “In Turchia non ci sono reporter condannati per avere fatto il loro lavoro”.
“Ci hanno accusato di usare questa notizia per influenzare il risultato delle elezioni di giugno- prosegue Dundar- ma noi non abbiamo valutato tempi e conseguenze. Il compito di un giornalista è soltanto quello di chiedersi se si tratti di una vera notizia, se il fatto sia di interesse pubblico oppure no”.
Nel Paese la polizia fa irruzione nelle redazioni, gruppi editoriali vengono commissariati, giornali sono sottoposti a pressioni attraverso ispezioni e controlli. “Sono venuti a farci ispezioni di tutti i tipi – racconta Dogan Satmis, anche lui del Cumhuriyet e membro del Turkish Press Council – controlli sulla sicurezza e le condizioni di lavoro, controlli fiscali… per cercare qualcosa che non andava. Ma non hanno mai trovato nulla fuori posto e non hanno potuto farci niente”. Nonostante questo, Satmis non ha paura ad esprimere le sue idee. “Questo per la struttura societaria del mio giornale, che è di proprietà di una fondazione e non può essere controllato da nessuno. Non credo possa fare la fine di Zaman”.
Che fa parte del Feza Media Group, commissariato nei giorni scorsi. Poi le proteste, le cariche della polizia, l’insediamento del nuovo Cda e, in poche ore, il licenziamento del direttore Ekrem Dumanli, colpito da due mandati di arresto in una settimana, e di parte della redazione. Il giorno successivo il quotidiano era, puntualmente, in edicola ma con la linea editoriale rovesciata: in prima pagina svettava una grande foto del terzo ponte sul Bosforo e sulla sinistra un’immagine di Erdogan.
Un copione già visto quando la stessa sorte era toccata ai media della Koza Ipek Holding, proprietaria dei quotidiani Bugun, Millet e delle televisioni Kanalturk tv e Bugun Tv. In una tiepida giornata di fine ottobre, nel quartiere di Sisli ad Istanbul, il popolo del predicatore islamico Gulen si era radunato, ordinato, per protestare. Uomini e donne divisi: le signore e le ragazze su di un lato delle strada, qualcuna con i bambini per mano e praticamente tutte con i “turban” (i foulard tradizionali turchi) in testa, gli uomini sul lato opposto. La polizia aveva caricato e scortato il nuovo management nell’edificio. Quattro mesi dopo, il gruppo, in crisi irreversibile, ha annunciato la chiusura dei suoi media.
In comune le holding avevano il legame con il controverso predicatore miliardario Fethullah Gulen che dal ‘99 vive in autoesilio in Pennsylvania, negli Usa. Potentissimo leader della confraternita islamica Hizmet (“servizio”) che conta milioni di seguaci nel modo ed è considerata un’organizzazione terroristica da Ankara che la accusa di infiltrare uomini nelle istituzioni e di tirare le fila dello “Stato parallelo”. Il tribunale ha, infatti, motivato le decisioni parlando di propaganda e sostegno ad un gruppo terroristico. Un tempo Gulen, acerrimo nemico di Erodgan, era un alleato importante del presidente. Ma quei giorni sono finiti e la questione dello Zaman è solo l’ultimo capitolo di una battaglia che Erdogan sembra, per lo meno in Turchia, avere ormai vinto.
La situazione nel Paese della Mezzaluna è più complessa di quanto possa apparire dall’esterno, essendo una nazione che tra il 1960 e il 1980 ha avuto tre colpi di stato militari, dopo i quali, per periodi più o meno lunghi, la libertà di stampa è stata praticamente azzerata. “Erdogan – racconta una giovane giornalista del Cumhuriyet – aveva iniziato riducendo lo strapotere dell’esercito e favorendo la crescita economica. Poi, però, dal 2008/2009 è cambiato. E’ al potere da troppo tempo, e diventa sempre più autoritario”.
Dalle colonne del quotidiano filogovernativo Sabah, Saadet Oruc scrive che lo Zaman era uno strumento operativo nelle mani di un’organizzazione criminale che mira a rovesciare il governo e che i gulenisti, lungi dall’essere martiri e paladini della libertà, sono nemici del diritto d’espressione e incompatibili con la libertà di stampa. Nel modernissimo edificio che ospita la redazione di Sabah, un giornalista ci racconta la sua versione: “Personalmente non sento limitazioni alla possibilità di esprimermi. Per quanto riguarda Zaman è una storia complicata, non si può rispondere su questo tema, senza pensare a tutta la storia che c’è dietro.”
Dogan Satmis è decisamente più netto sul tema. Scrive per un giornale laico, simbolo di una Turchia che non accetta Erdogan ma che, non per questo, si fida di Gulen. “Può darsi – dice – che Gulen abbia davvero tramato per tentare di rovesciare il governo. In effetti sono successe cose strane, prima dello strappo tra lui ed Erdogan. E – aggiunge – in una democrazia, chi agisce nell’ombra, deve essere fermato. Ma non in questo modo, non commissariando giornali e tv e licenziando i giornalisti”.
Anche perché, continua Satmis, la strategia di Erdogan è chiara: “Oltre l’80% della distribuzione dello Zaman avviene con gli abbonamenti. Che cosa credete che accadrà con il rovesciamento della linea editoriale? Gli abbonamenti non verranno più sottoscritti e il giornale morirà, come è avvenuto per i media della Koza Ipek. E questo non è giusto”. Una settimana dopo il commissariamento in quotidiano era quasi sparito dalla distribuzione: dalle oltre 630mila copie stampate il sabato precedente, la tiratura dell’edizione del mercoledì era scesa ad appena 3.445. Un crollo verticale che fa lanciare l’allarme su una imminente chiusura di quello che fino a 7 giorni prima era il quotidiano più diffuso del Paese. Che cosa succederà adesso? A questa domanda, qualcuno risponde con un sorriso ironico: “In Turchia tutto può accadere”.