Dalla Pianura Padana al mare di Genova, 292 chilometri che danno il via alla stagione vera del ciclismo e sono l'occasione per ricordare il Belpaese che fu. Il racconto di record, campioni e aneddoti
MILANO – Nel giorno di san Giuseppe va in scena la Milano-Sanremo numero 106: per la parrocchia delle due ruote, non è solo la grande “classica di primavera”. E’ un viaggio rituale, come scrive Claudio Gregori nel suo bel libro dedicato a Merckx, figlio del tuono (66TH2ND editore, appena uscito). Insomma è più di una semplice gara. E’ il vero inizio della nuova stagione agonistica: quando i campioni escono di letargo e misurano la concorrenza. Quello che l’attuale calendario sempre più infittito delle corse offre prima è fuffa, o quasi. Appaga i team, e affina la forma dei corridori che sfruttano le gare per allenarsi. Ma il test della verità rimane la Milano-Sanremo: dove si capisce come andrà per il resto dell’anno. Oggi in lizza abbiamo lo svizzero Fabian Cancellara, figlio di emigrati nostrani. C’è il campione del mondo, lo slovacco Peter Sagan, testa matta di grandissimo talento. Ci sono altri che palesano buona forma. Come il belga Greg Van Avermaet, vincitore della Tirreno-Adriatica mutilata delle salite per paura della neve che poi non c’è stata e che ha fatto imbufalire Vincenzo Nibali.
C’è infine il ceco Zdenek Stybar, fiammingo d’adozione, tre volte campione iridato di ciclocross che a trent’anni si scopre ottimo finisseur: ha fatto sua la pittoresca ed anacronistica corsa delle Strade Bianche – con passaggi di sterrato – in quel del Senese. E poi, soprattutto, c’è la Storia, a pesare nella memoria dei suoi 292 chilometri, dalla pianura padana al mare della Riviera. Già. Toccò infatti alla Milano-Sanremo ridare un po’ di normalità al mondo dello sport, squassato dalle rovine materiali e morali della Seconda Guerra Mondiale. Lentamente, mentre ancora risuonano le raffiche delle vendette nelle periferie delle città e nelle campagne martoriate dai nazifascisti, l’Italia sconfitta e in parte salvata nell’onore dalla lotta partigiana, cerca di ricominciare da zero.
E’ il tempo febbrile della ricostruzione, della ripresa, della fatica quotidiana. E delle grandi speranze. Tutto il Paese pedala in salita, e non è solo un modo di dire. Il ciclismo è sport povero: rappresenta lo sforzo, i sacrifici, talvolta il dolore. Ma anche la gioia della vittoria. Tutti pedalano, tutti possono sognare il successo. I campioni diventano eroi del popolo. Arrivano al traguardo e hanno addosso i segni di un’immonda fatica. Spesso, hanno la faccia triste. Come il grandissimo Fausto Coppi. O hanno la faccia forte e spavalda di Gino Bartali. Le loro sono famiglie numerose: tanti fratelli e sorelle. Per loro, il ciclismo è davvero il riscatto dalle enormi difficoltà. Nessun altro sport assomiglia tanto ad un lavoro, nessun altro più del ciclismo. “Pedalare” nell’immaginario della gente, significa rimboccarsi le maniche, darsi da fare: il migliore vince. E’ l’ideologia meritocratica (dal basso) e individualistica nell’Italia che si sta rimettendo in cammino. La fuga solitaria sublima le aspettative di riscatto di milioni di persone, senza tante mediazioni. Diceva Alfredo Binda: “Per vincere ci vogliono i garùn…”. Il ciclismo diventa la grande epopea dell’uomo comune, mentre attorno si rimettono in sesto gli ottomila ponti distrutti, i seimila chilometri di binari divelti, si sminano i campi, si abbattono quel che resta delle case sventrate dalle cannonate o dalle fortezze volanti.
Il 19 marzo del 1946 la Milano-Sanremo si disputa in un clima di grandi emozioni. Corrono fianco a fianco vincitori e vinti della guerra. Coppi, soldato in Tunisia e a lungo prigioniero degli inglesi, ha contratto la malaria. Da Napoli ha risalito la penisola in bicicletta, per ornare a casa, a Castellania. Si è appena sposato. Si è allenato mostruosamente: 7mila chilometri per trovare la forma giusta. E’ costretto a rispettare una dieta rigorosa. Ha paura di non essere più il corridore ventenne che vinse a sorpresa il Giro d’Italia del 1940 e che al Vigorelli, quando Milano veniva regolarmente bombardata, aveva stabilito il nuovo record dell’ora, nel 1942. Ha avuto un buon ingaggio, dalla Bianchi, che tutti i suiveurs chiamavano la “biancoceleste”: il patron Aldo Zambrini gli offre un autocarro Civis. Gino Bartali, invece, è furioso con la Legnano: vuole guadagnare quanto Coppi, non gli basta essere pagato in tubi Falk che poi rivende all’azienda comunale del gas di Firenze. L’inflazione, quel marzo, è al 78,9 per cento. Alla partenza, il volto di Coppi è teso. Intuisci il tormento. La bagarre comincia subito. Sullo slancio di una volata a premi in quel di Binasco vinta da Mutti, scappa il francese Lucien Teisseire.
Dietro si organizza un gruppetto che lo raggiunge: Tarchini, Mutti, Barisone e Bardelli. Coppi scalpita: teme Mutti, teme soprattutto che le cattive condizioni stradali, l’attraversamento del Po sul ponte di chiatte e il Turchino possano favorire i fuggitivi. Così ingrana il rapportone e va alla caccia dei cinque davanti. Trascina con sé Valdesolo, Casellato e Ronconi. I due gruppetti si ricongiungono, ma dura poco. Alle prime rampe del Turchino restano Fausto e il cagnaccio francese. Coppi respira aria di casa sua. E’ primo ai traguardi volanti di Vilalvernia e Ovada. Coppi scatta, sulla salita poco prima di Masone. Si libera dell’ostinato francese. Mancano 145 chilometri all’arrivo: la galleria buia e malandata del Turchino “collegava l’umidità della Val d’Orba ai fumi neri di Voltri”, scrisse Claude Tillet, la pace non aveva ancora rimesso in funzione l’impianto elettrico. I tifosi che aspettavano dalla parte del mare, videro passare le prime auto che precedevano la corsa. L’ultima, aveva a bordo una sorta d’araldo. Annunciò: “Arriva Coppi! Arriva Coppi!”. E coppi arrivò, veloce, troppo veloce
Fu esattamente lì che nacque la leggenda dell’Airone: “Spiccò il volo, allargando le ali”, scriverà Gianni Brera. Fu impresa titanica. Tagliò il traguardo con 14 minuti di vantaggio su Teisseire, 18 e 30 su Ricci, il terzo: “Più che un’impresa, una favola”. Il distacco inflitto da Coppi è ancora record, tuttora imbattuto. Non credo lo sarà mai più. Sulla linea del traguardo fu un delirio. L’Italia si divise in “coppiani” e “bartaliani” (il grande sconfitto fece spallucce: “Ho boicottato i miei della Legnano perché mi pagano poco”). I giornali scrissero: “Coppi, l’aquilotto biancoceleste”. La metafora dell’uccello. Della bicicletta le cui ruote sono ali. Quanto diverso il primo giorno, o meglio la prima volta. Fu nel 1907, la Belle Epoque dei pionieri in bicicletta. Vinse il francese Lucien Petit Breton della Peugeot grazie ad una carognata di Giovanni Gerbi detto non a torto “Diavolo Rosso”. Erano in tre a disputarsi il successo, il piemontese e due francesi. Breton disse a Gerbi: “Tu sbatti giù Garrigou, che è il più veloce, poi ci dividiamo il premio”. Detto e fatto.
Il piemontese Gerbi si sbarazzò di Gustave Garrigou. Lucien Georges Mazan correva con lo pseudonimo di Petit Breton. Quell’anno vinse il Tour de France, fece il bis nel 1908, il primo corridore della storia ciclistica a vincere la Grande Boucle. Poi si arruolò volontario nella Grande Guerra. Rimase ferito nella battaglia delle Ardenne del 1917. Morì per i postumi poche settimane dopo. Pure Garrigou vinse un Tour, e una Milano-Sanremo, nel 1911. Pure lui affrontò la guerra. Ebbe fortuna: sopravvisse. E c’è un altro anniversario a suo modo epocale. Cinquant’anni fa Eddy Merckx – il futuro Cannibale aveva appena vent’anni – vinse una volata convulsa e spezzata in due: a destra gli italiani Adriano Durante e Michele Dancelli. A sinistra Merckx ed Herman Van Springel. Eddy allargò i gomiti come fossero rostri. La sua ruota fendette “l’aria come una scure”. Regolò il più esperto Van Springel, mentre Durante superò di una bici il rivale Michele Dancelli, ma prese quaranta centimetri dal giovanissimo esordiente belga, che mai aveva affrontato una corsa così lunga e difficile. Merckx ne avrebbe vinte altre sei di Milano-Sanremo. Non fu il più giovane ad arrivare primo: questo primato resta a Ugo Agostoni: si impose nell’edizione 1913 a diciannove anni. La sua Sanremo made Merckx aprì un’era. Quel giorno, come vent’anni prima quando vinse Coppi l’indomani della guerra, trionfò un campione che interpretava le gare come “sfide totali”. Come battaglie all’arma bianca. Correva sempre in testa: in fondo, come i campioni eroici di una volta. Se il ciclismo è sport a volte crudele – lo è la vita, cui si richiama sempre – Merckx ne fu l’implacabile interprete, nel bene e nel male, e in tutte le sue contraddizioni, i suoi peccati, le sue meraviglie. Ma con mantra nella testa: “Chi va più forte deve vincere”, sentenziò Merckx. Lui lo fece.