"Sono stupito del silenzio su questa operazione. La fusione è pienamente giustificata da ragioni economiche, dalla necessità di sostenere investimenti nel digitale”, spiega il direttore. “Ma le sovrapposizioni tra redazioni – locali e nazionali – sono evidenti: quale sarà il prezzo in termini di occupazione?"
Il paradosso della nostra epoca è che la quantità d’informazioni non corrisponde alla qualità delle stesse. E poi: non sentiamo parlare che di storytelling e narrazioni (meglio se accompagnate da slide e disegnini). Ma cosa raccontano i media? Herman e Chomsky alla fine degli anni Ottanta tracciarono il profilo del sistema d’informazione americano, parlando di Fabbrica del consenso: una stampa accondiscendente serve a formare un’opinione pubblica mansueta e malleabile. E da noi? “C’è un forte fastidio verso l’informazione libera”, spiega Ferruccio de Bortoli. “Per gran parte della classe dirigente italiana, pubblica e privata, l’informazione non è una risorsa, ma un male necessario”. E qui siamo al tema di questa serie d’interviste che gira attorno al conformismo dell’informazione. E che s’intreccia anche con la cronaca, viste le recenti notizie sull’acquisizione da parte del gruppo Espresso di Itedi, la società che pubblica Stampa e Secolo XIX. “La fusione è pienamente giustificata da ragioni economiche, dalla necessità di sostenere investimenti nel digitale”, spiega ancora il direttore. “Ma le sovrapposizioni tra redazioni – locali e nazionali – sono evidenti: quale sarà il prezzo in termini di occupazione? Mi auguro che la decisione di unire in un unico destino societario testate gloriose non porti a omologare le scelte, appiattendo le opinioni. Si uniscono le testate, spero non si confondano le identità editoriali”.
Sull’affare Mondazzoli è stato sollevato un gran polverone con petizioni e articoli sui giornali. Ora no. C’entra il fatto che Mondadori è di Berlusconi?
Si tratta di due concentrazioni editoriali con uguali motivazioni economiche. Per una sono state espresse preoccupazioni, anche sull’omologazione culturale e i rischi che questa comporta. Per me, ex amministratore delegato di Rcs Libri, quella vendita è stata un dolore. Una sconfitta. Nell’altro caso c’è stato più che altro silenzio, anche da parte della nostra categoria. L’avesse fatta Berlusconi, avremmo avuto manifestazioni in piazza, lo sciopero delle firme, i post-it, gli appelli. È necessario unire le testate? Forse, a me non piace, ma può darsi che sia economicamente necessario. La principale preoccupazione da parte di un editore dovrebbe essere preservare le diverse identità editoriali, che sono estremamente forti e hanno grandi tradizioni. Il legame con i lettori è un legame intimo, viscerale, appassionato e spesso si è costruito per differenza e opposizione alle altre testate, che magari oggi si trovano riunite nello stesso gruppo. Il danno è al pluralismo editoriale.
Di questo silenzio sull’affare Stampa-Repubblica lei è molto stupito: lo ha detto anche a Prima pagina.
Ricordo il furioso dibattito che ci fu negli anni Ottanta in occasione della ventilata concentrazione tra La Stampa e Il Corriere della Sera. Il più scatenato all’epoca era Franco Bassanini: si riteneva che con l’ingresso in via Solferino degli Agnelli, dopo il caso Rizzoli-P2, si fosse creato un ipotetico nuovo gruppo. All’epoca, è giusto dirlo, l’Avvocato era molto rispettoso delle autonomie e consentiva anche che ci fosse una certa concorrenza. Gli telefonai per dirgli che Sergio Romano lasciava La Stampa per venire al Corriere. Non era contento, mi rispose: “La ringrazio, direttore. Ci vediamo in Piemonte”. Il suo modo per dire che stava dalla parte della Stampa.
Più recentemente lei si è opposto alla sinergia tra Stampa e Corriere.
Ho sempre pensato che il Corriere ce la potesse fare da solo, perché ha sempre avuto conti in attivo. Ora si apre uno spazio editoriale ampio che spero possa essere appoggiato da azionisti più consapevoli del proprio ruolo di editori.
Quando diventa prepotente, da un punto di vista pubblicitario, questo super gruppo che ha anche 17 quotidiani locali oltre al settimanale l’Espresso?
Certamente acquista un potere di mercato rilevante. Però non mi preoccupa più di tanto, tenuto conto di quanto ha pesato Mediaset in questi anni, di quanto pesa ora Google e anche di come è cambiato il mercato pubblicitario.
Andiamo verso un’informazione “oligarchizzata”?
Mi auguro di no. Il pericolo maggiore è il conformismo. Questo è un Paese in cui c’è un forte senso di fastidio verso il dissenso da parte della classe dirigente pubblica, privata e dei poteri rimasti.
Perché “rimasti”?
I poteri forti esistevano ai tempi in cui Fiat, Mediobanca contavano più di oggi. Con molti difetti, ma non erano privi di “sentimento nazionale”. Personaggi anche discutibili ma con una loro etica personale. Dovremmo preoccuparci della mancanza di poteri nazionali che abbiano a cuore il destino del Paese e non solo il proprio interesse. Rischiamo anche di perdere Telecom…
Torniamo al fastidio per l’informazione.
Non si discute mai dei costi della non informazione: dove non c’è un’informazione viva, scrupolosa e attenta ci sono opacità, arbitrio, corruzione, disprezzo del merito. Berlusconi, D’Alema, l’attuale premier, credo abbiano sempre il sospetto che il giornalista non faccia bene il proprio mestiere, che sia agli ordini di qualcuno o addirittura prezzolato. Ricordo che in un paio d’occasioni Berlusconi mi domandò: “A lei Romiti cosa chiede?”. E io rispondevo: “Niente”. Si fa di tutto perché l’informazione sia una prosecuzione della comunicazione d’impresa, o di partito o del governo.
Abbiamo delle responsabilità anche noi.
Io leggo ancora molte buone inchieste, articoli, approfondimenti. Oggi per un direttore o un editore non pubblicare le notizie è difficile. Se hai una notizia vera, esce: la Rete è un grandissimo volano ed è un territorio di sperimentazione straordinario per il giornalismo d’inchiesta. Quello che più temo è la tendenza al quieto vivere e anche un po’ alla rassegnazione della nostra categoria. Esiste un potere insofferente, esistono le concentrazioni, esiste la pigrizia del nostro mestiere, esiste il corporativismo quieto dei giornali: mi dispiace che ora il dibattito non nasca nelle redazioni dei giornali che sono oggetto delle recenti operazioni. Aiuterebbe gli stessi editori a fare scelte migliori.
Quando alla Leopolda Renzi fece la classifica dei giornali gufi, lei postò su Twitter un commento fulminante: “Se li faccia direttamente lui i titoli”. Premesso che l’intolleranza verso l’informazione indipendente è inaccettabile, c’è un’opposizione al governo tale da giustificare quest’insofferenza?
L’atteggiamento di Renzi e dei suoi comunicatori verso i quotidiani è pari a quello che avevano Berlusconi e i suoi comunicatori. Anzi, a volte è peggio. Penso a quel modo di scrivere “Renzi ai suoi”: molti hanno criticato l’uso dei retroscena, ma con Renzi assistiamo all’introduzione di una sorta di retroscena di governo.
Lei è sempre stato favorevole al Jobs act: costato molto in termini di diritti dei lavoratori e di denaro (13 miliardi in 3 anni alle imprese). Eppure, dati Inps di questa settimana l’effetto è già finito.
Nonostante tutto credo sia una buona legge. È una legge costosa ma che va nella direzione giusta. Renzi ha il merito storico di aver tolto di mezzo l’articolo 18. Il Novecento nel mondo del lavoro è finito e non bisogna averne paura.
Ma è un merito? Era applicato in pochissimi casi.
Sì, perché ha adeguato il mercato del lavoro agli standard europei. L’articolo 18 era un impedimento anche dal punto di vista psicologico. Però gli effetti reali del cambiamento delle regole sull’occupazione non li abbiamo ancora visti. Gli ultimi dati Inps, con il crollo delle assunzioni stabili a gennaio (-112 mila) sono preoccupanti. Vediamo gli effetti della decontribuzione. È mancato il coraggio di applicarlo al pubblico impiego: ci sono ancora molte cose da fare. Come nei servizi all’impiego.
Prendiamo il racconto dei casi Grecia, Portogallo (“il miglior allievo della troika” tornato alla crescita che oggi non pare andare così bene) o Spagna (un paradiso con contratti persino da 6 giorni almeno fino al prossimo tracollo…). Tutte narrazioni basate sulla colpevolizzazione delle vittime prima, la loro rimozione poi.
La descrizione delle politiche europee è un caso di conformismo su cui interrogarsi: anch’io devo fare un po’ di autocritica. Ricordo che discussi a lungo con Tommaso Padoa-Schioppa sul rischio che i temi dell’Europa apparissero ai cittadini lontani, astrusi, frutto di scelte tecnocratiche e poco condivise. Lui non era di questa idea. L’élite europea ha commesso l’errore di ritenere le posizioni contrarie al processo di unificazione non degne di essere culturalmente prese in considerazione. Un peccato di superbia che ha finito per consegnare gli scettici ai movimenti estremisti e populisti. Essere contro l’Europa non è essere contro la Storia, essere contro l’Europa è una posizione legittima. Questa superbia ha impedito di vedere le difficoltà dell’integrazione. La questione dei migranti ha fatto esplodere questa contraddizione. Su questo tema bisogna dar atto a Renzi del coraggio della sua posizione. Bisogna dimostrare ai cittadini che l’Europa non è una gabbia di regole, ma la culla dei diritti. L’Europa rappresenta la vera salvaguardia dei nostri valori democratici, tenendo conto di come si stanno muovendo i Paesi dell’Est dove assistiamo a una disgregazione morale sul tema dei diritti.
Anche in Grecia, se consideriamo il diritto a sopravvivere un diritto.
Sì, certo. Le banche tedesche e francesi non hanno pagato per i loro errori nel concedere prestiti troppo disinvolti. Il peso della ristrutturazione del debito greco è un onere della collettività europea. L’Italia ha fatto diligentemente la sua parte. In Grecia pagano lavoratori, pensionati. La borghesia ha portato i capitali all’estero. Gli armatori continuano a pagare tasse irrisorie
Il conformismo è la malattia di questi anni?
Si sottovaluta la necessità di avere nel Paese un dibattito con posizioni diverse, autentiche, anche dure. Che aiutano tutti, soprattutto chi governa. Discutere con sincerità dei problemi rende l’opinione pubblica – il vero architrave di un sistema democratico – più avvertita, responsabile e libera. È un antidoto naturale al populismo: la gente è indotta ad approfondire.
Forse è proprio questo ciò che non si vuole.
Il cittadino non è un suddito. Renzi non dovrebbe temere un dibattito vero sollevato da un giornalismo libero e autonomo dal potere: una discussione aperta facilita il raggiungimento delle soluzioni migliori. Le buone politiche risaltano di più e gli errori vengono corretti in tempo. Se il dibattito è reticente, opaco copre gli errori e le collusioni, favorendo i pochi che sanno ai danni dei tanti che non sanno.
Siamo un Paese di gufi e rosiconi.
Questa narrazione emargina il dissenso, addirittura lo criminalizza come un disfattismo anti-patriottico. Chi dubita della politica economica di Renzi – fatta di molte spese utili unicamente a guadagnare consenso – non è un irresponsabile che gioca allo sfascio, ma una persona che vuole continuare a ragionare con la propria testa senza consegnarla all’ammasso del potere renziano. Che peraltro non tollera intralci ed è pronto anche alla vendetta. Un altro dei conformismi di cui non si discute è la grande concentrazione di potere renziano: non c’è mai stata come in questo periodo un’invasione di campo da parte della politica in decisioni che riguardano anche società quotate e private.
Più che a leggi promulgate (addirittura auto-promulgate) assistiamo con frequenza all’esposizione di slide. Anche su questo punto i giornali sono poco vigili?
Si annunciano tante cose per coprire il dibattito. Nelle ultime settimane abbiamo sentito annunci di tagli di tasse che non sarà possibile realizzare: lo trovo irresponsabile. Come lo è sottovalutare il tema del debito pubblico. E non perché sia insostenibile – lo è a patto che si cresca – ma perché non occuparsene autorizza i centri di spesa a tornare alle vecchie abitudini.
Un esempio di conformismo è stato il pareggio di bilancio in Costituzione. Sempre per via del “ce lo chiede l’Europa”.
Un certo conformismo c’è stato anche nell’emergenza. Quella modifica è stata approvata sulla spinta dell’emergenza spread e il rischio che l’Italia andasse in default. Credo sia una norma giusta in un Paese così predisposto agli sprechi, alla corruzione, al disprezzo della cosa pubblica, alla scarsa considerazione delle generazioni future. Però è vero: se n’è discusso poco.
Anche all’epoca dell’ingresso dell’Italia nell’euro ci fu una specie di frenesia: eppure è una scelta che ha avuto un impatto enorme sulle nostre vite.
Allora ci fu una grande pressione affinché l’Italia entrasse con il primo gruppo. Forse il dibattito è stato troppo affrettato: il cambio lira-euro è stato davvero penalizzante. Molti di noi hanno scambiato l’ingresso nella moneta unica per l’ingresso in una società di mutuo soccorso. Stare in un sistema monetario unificato non significa affatto che esista un dovere di solidarietà tra Paesi. Anzi fa sì che il partner dell’unione monetaria sfrutti al massimo, in maniera impietosa, ogni nostra debolezza.
Lei è stato direttore di due tra i più grandi giornalisti d’inchiesta italiani, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori de La casta. La “narrazione” sulla casta – non certo per intenzione degli autori – negli anni è degenerata in un generico “la politica è sporca”, “tutti rubano”.
Quella di Sergio e Gian Antonio è stata la più grande inchiesta civile del Dopoguerra: ha messo a nudo sprechi, ruberie, malversazioni. Però è sbagliato non dare il giusto merito ai tanti che fanno bene, pagano le tasse, non se ne approfittano. Considerare tutti ladri e corrotti è la più subdola delle amnistie.
Da Il Fatto Quotidiano del 19/03/2016