Frutto di un decennio di amicizia tra Flavio Costantini e Roberto Farina, “Anarchia molto cordialmente” è un volume che ripercorre attraverso dialoghi e memorie la vita e le opere del pittore che negli anni Sessanta e Settanta è stato una bandiera della cultura libertaria, prima di isolarsi in un piccolo borgo della riviera ligure. Qui di seguito un’intervista che ho realizzato con Andrea Staid all’autore Roberto Farina.
Perché un libro su Flavio Costantini? Brevemente, puoi spiegare ai lettori la sua vita, non solo quella artistica?
Amo l’opera di Costantini da quando ero bambino. Sfogliavo l’enciclopedia Io e gli altri e mi incantavo ad ammirare le sue illustrazioni. Io e gli altri nasceva a Genova, fu Primo Moroni che la diffuse a Milano, organizzandone la vendita porta a porta. Un bel pomeriggio bussarono proprio alla porta dei miei e trovarono mia madre, che li fece entrare e gli comprò l’opera. Una volta cresciuto mi sono deciso ad approfondire la figura dell’uomo che stava dietro quello stile così immediato ed elegante e non ho trovato granché in giro, anzi diciamo che non ho trovato nulla di soddisfacente. Lo interpretai subito come uno dei tanti fenomeni di furtiva cancellazione della cultura e del passato. E così ho deciso di fare delle ricerche da solo. Ho trovato il suo numero di telefono tramite la galleria Nuages di Milano e l’ho contattato. All’inizio non è stato facile superare lo sbarramento protettivo di Costantini, un filo spinato di segreterie telefoniche e diffidenza, ma una volta fatta amicizia, la strada è stata tutta in discesa. Più ci conoscevamo, più lui si apriva. Nel libro racconto la nostra amicizia, la sua vita, il suo lavoro. Dico “lavoro” perché lui la parola “arte” non l’ha mai usata, almeno in mia presenza. Non sapeva nemmeno definirsi professionalmente, o meglio: non gli interessava farlo. «Ci pensano gli altri», diceva. «I detrattori mi chiamano illustratore, gli ammiratori pittore. E non me ne frega niente». Per sintetizzare, parlerei dell’artista definendolo un uomo libero. Parlerei dell’uomo definendolo un artista libero. La sua formazione, dopo il liceo classico, proseguì all’Accademia navale. Costantini era un ufficiale di Marina e questa era una cosa di cui andava sempre fiero, anche se non se ne faceva un merito. «Non so manco nuotare! Chissà come ho fatto a diventare marinaio. Sarò stato raccomandato. Vai a sapè!». Cominciò a disegnare durante le traversate transoceaniche sulle petroliere e divenne illustratore di stoffe nelle pause tra un imbarco e l’altro. L’incontro decisivo fu a Genova, con Lele Luzzati. «Lele era il Deus ex-machina», diceva. Fu Luzzati a presentargli i grandi grafici dello Studio Firma, del quale Costantini fece parte per qualche anno. Luzzati, se non vado errato, gli presentò anche Eugenio Carmi, grazie al quale Costantini fece la sua prima mostra nel 1963, nella Galleria del Deposito di Genova. I suoi debiti alla contemporaneità sfiorano lo zero, secondo me. Uno zero tondo tondo, giottesco. Dico “sfiorano” perché dei contatti diretti li ha avuti, non penso solo a Carmi e a Luzzati, ma anche a tutti i pittori delle gallerie di Schwarz e di Cardazzo, per i quali ha esposto negli anni Sessanta e Settanta. Quindi di artisti ne ha incontrati, ma lui affermava sempre che l’arte non gli interessava granché. «La mia formazione è puramente letteraria», diceva. Era un formidabile lettore. Come diceva il suo caro amico Gian Franco Norero: «È incredibile la quantità di cose che ha letto! Flavio ha letto tutto, tutto!». Nel suo lavoro Costantini accettava solo due debiti stilistici: quello con i maestri delle vetrate gotiche e quello con gli incisori del diciannovesimo secolo. Ecco chi apprezzava: gli oscuri maestri ignorati dalla storia dell’arte. Ne amava la precisione e la fissità. E forse l’anonimato.
Quali quadri di Costantini ti hanno colpito di più?
L’immagine da cui è partito il mio interesse è il ritratto di Sacco e Vanzetti, realizzato nel 1975 per Io e gli altri. In seguito ho amato gli anarchici e quindi l’arcinoto dipinto di Bresci che spara al re, o quello di Caserio che si allontana dal presidente della repubblica francese dopo averlo accoltellato, o quello di Almereyda seduto pensieroso nel caffè dove avevano appena sparato a Jean Jaurés. Ma direi che amo tutti i quadri anarchici. Ora ho imparato ad apprezzare anche la produzione successiva, soprattutto quella sugli zar. Le ombre congelate delle granduchesse nella loro residenza-prigione mi affascinano molto. Sono immagini di un horror cupo, eppure si gode a guardarle, perché tutto è intriso di bellezza. L’arte opera di questi paradossi.
Puoi dire qualcosa sul rapporto umano e artistico di Flavio Costantini con Eugenio Carmi?
Fu Eugenio Carmi a creare la Galleria del Deposito, diretta dalla Cooperativa di Boccadasse, anch’essa voluta da lui. La cooperativa, della quale faceva parte anche Costantini, si proponeva di divulgare l’arte presso quegli strati popolari che non potevano permettersi un originale. Da qui l’idea dei multipli: serigrafie, stampe su ceramica e su stoffa e così via. In seguito Carmi, che era responsabile dell’immagine dell’Italsider, chiamò Costantini a collaborare alla Rivista Italsider, del quale era il direttore artistico. Purtroppo non lo ritenne mai degno degli onori di copertina. Quando Costantini mi raccontava di questo, sorrideva ancora al ricordo di come Carmi fosse arrossito quando si era trovato a parlare di questo davanti a Costantini. Quando ho incontrato Carmi per raccogliere un ricordo di Costantini, è arrivato in ritardo (leggerissimo) all’appuntamento e mi ha detto: «Scusi se l’ho fatta aspettare, ma sa, ho novantacinque anni. Novantacinque… Eh beh, son cose che capitano». Son cose che capitano. Sorrideva. Sono certo che parlasse non del ritardo, ma dell’età.
Anarchia molto cordialmente in che senso?
Quando Costantini dedicava una serigrafia o un libro, scriveva sempre così: Flavio Costantini, cordialmente; o Flavio Costantini, molto cordialmente, a seconda della simpatia. Le variazioni erano minime e riservate a pochi: ai parenti o agli amici intimi. Il titolo è un omaggio anche alla sua gentilezza e delicatezza d’animo, alla sua eleganza e raffinatezza, qualità che non gli impedirono di raffigurare in modo potente e inesplorato le imprese di quegli anarchici che, a torto o a ragione, decisero che lo scempio e le offese del Potere erano una faccenda da revolver. E così si fecero levatori della Storia. E se non della Storia, sicuramente del proprio destino.