Niente più abiti da uomo e da donna. Sulle passerelle di alta moda, e ora anche nei negozi di abbigliamento, arrivano gli abiti “agender”, capi neutri che sfuggono alle categorie maschile e femminile, e che quindi possono essere indossati indistintamente da tutti. Dopo varie sperimentazioni da parte di marchi e grandi magazzini, anche Zara ha deciso di lanciarsi nella nuova tendenza, proponendo la linea “Ungendered”, che contempla felpe, jeans, canotte e maglie pensate al tempo stesso per i gusti di lei e di lui. “Questa linea è il risultato della nostra vicinanza ai clienti” ha specificato la catena di abbigliamento spagnola presentando al pubblico la collezione dedicata al “genere fluido”, né maschile né femminile. Ma sul web in tutto il mondo è scoppiata la polemica. Non tutti infatti hanno gradito i pantaloni e le t-shirt informi, così come le felpe e le canotte oversize dai colori neutri, che vanno dal grigio al bianco, passando per il nero, senza alcun vezzo di decorazione o dettagli che diano personalità ai capi. L’accusa principale per il colosso spagnolo è di avere fatto una scelta sessista producendo abiti che privilegiano troppo la mascolinità, ma che di femminile non hanno niente. “Parità di genere non significa #mascolinizzazione. Che toppa ha preso Zara con ungendered” commenta un utente su Twitter. Altri hanno puntato il dito contro le modelle che indossano i vestiti, tutte androgine e molto mascoline, mentre in tanti hanno sottolineato come i vestiti della linea siano adatti soltanto a persone alte e magre, discriminando quindi tutte le altre che non potrebbero permettersi di indossarli. Qualcuno poi ha ricordato come la trovata di Zara non sia innovativa per nulla, citando l’unisex arrivato negli anni Settanta, quando le donne cominciarono a impossessarsi di abiti prettamente maschili come i jeans: “Una volta era unisex. Vabbè, la solita questione di marketing”.

In effetti l’idea di Zara non è una novità nel mondo della moda. Senza contare che gli abiti unisex, adatti a tutti e interscambiabili, esistono già da molto tempo. A dare una nuova lettura a quello che per molti in fondo già esisteva, è stato soprattutto il dibattito sul gender, la sessualità e la parità di genere che negli ultimi anni ha dominato e infuocato sempre più l’opinione pubblica, tra provocazioni e la tendenza al politically correct. Sulle passerelle già da anni gli stilisti giocano con i generi, confondendo tessuti e colori, fantasie e perfino accessori, mischiando le etichette uomo-donna. Lo hanno fatto, solo per citarne alcuni, Vivienne Westwood e il marito Andreas Kronthaler, Giorgio Armani, Gucci e Pitti Uomo, a volte anticipando, a volte seguendo, il trend del genderless. Lo scorso anno un esperimento simile a quello di Zara è arrivato a Londra ai grandi magazzini Selfridges, dove tre piani del negozio sono stati trasformati in reparti neutri e “agender” per lasciare i clienti liberi di scegliere cosa comprare e cosa indossare al di là di stereotipi ed etichette, con un’offerta di firme che da sempre producono abbigliamento non di genere come Maharishi e Yohji Yamamoto. Le accuse al marchio spagnolo però hanno riportato in primo piano un dibattito ancora aperto, anche se per qualcuno le critiche sono dovute più che altro al fatto che, come si suggerisce su Twitter, “la moda genderless meriterebbe di essere più cool di così”.

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