Brutta cosa gli anniversari, peggio ancora questa moda delle giornate mondiali. Robe che servono più che altro a conferire una patente di minorità.
Vale anche per la poesia (che la sua giornata la pone il 21 marzo) e per il poetry slam – la ‘gara’ di poesia con giuria popolare – che io importai in Italia proprio il 21 marzo del 2001 e che nacque ufficialmente in America a Chicago, dall’idea geniale di Marc Kelly Smith, nel 2006 e che quindi compie un quindicennio di vita italiana e – contemporaneamente – un trentennio di esistenza internazionale.
Sono stati anni in cui questo strano ed efficacissimo medium dei versi ha mietuto un successo dopo l’altro, diffondendosi in tutto il mondo e in tutta Italia. Proprio dall’Italia è partito nel 2002, grazie a me, l’uso di farne d’internazionali, globalizzando il movimento e facendo incontrare autori di ogni lingua e nazione.
In Italia la sua diffusione è stata lenta, affidata, all’inizio, all’iniziativa mia e di una serie di altri pionieri che si sono generosamente spesi per organizzare occasioni e festival in cui inserirlo, penso a Daniela Rossi (Parma e Bolzano), Luigi Nacci e Christian Sinicco (Trieste), Dome Bulfaro e Marco Borroni (Monza), Luigi Socci (Ancona), il gruppo Sparajurij e poi Guido Catalano e Alessandra Racca (Torino), Luigi Cinque e Claudia D’Angelo (Roma), Silvia Parma (Bologna) che proprio in questi giorni ne realizza uno (il più bello di tutti) per i ragazzi del carcere minorile di Bologna.
Poi è nato un vero e proprio movimento che ha creato la LIPS, la Lega Italiana Poetry Slam che da ormai tre anni organizza un Campionato nazionale, forte di centinaia di date. In questi anni hanno partecipato ai poetry slam decine di poeti, di ogni stile e d’ogni poetica, anche insospettabili come Valerio Magrelli, Tiziano Scarpa (che ne ha vinti d’internazionali) Rosaria Lo Russo, Filippo Timi, Andrea Inglese, Tiziana Cera Rosco, mentre molti giovani talenti della poesia italiana hanno mosso i loro primi passi sui suoi palchi: da Marco Simonelli e Sergio Garau a Simone Savogin, da Chiara Daino a Adriano Padua, Gabriele Stera, Julian Zhara, Alessandro Burbank, Francesca Genti, Nicolas Cunial, Alfonso Maria Petrosino, Scarty Doc Passoni e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Da quest’anno inoltre esiste anche un campionato studentesco che coinvolge allievi e insegnanti di numerose scuole italiane. C’è dunque davvero da festeggiare e non è un caso se ad aprile va in libreria la prima ricostruzione storica di questo quindicennio, la Guida liquida al poetry slam di Dome Bulfaro (Agenzia X ed.), dove tutti i fili della tela sono, infine, abilmente riannodati.
Tuttavia lo Slam fa ancora scandalo. In Italia anche più che altrove. Quale sarebbe, dunque, questo scandalo? La gara? Eppure di gare se ne fanno a bizzeffe: le chiamiamo concorsi, premi, rassegne. E godono di fama ottima e integerrima (anche i peggiori e i più patetici tra loro). I poeti sono comunque ‘in gara’, sempre: per pubblicare, per essere letti o essere ascoltati.
I poeti sono – tutti o quasi – ferocemente competitivi, oggi più che mai, perché gli spazi sono pochi, l’attenzione infima, i fondi più che miserrimi. Dov’è lo scandalo di un’altra competizione? Non sarà che lo scandalo sta tutto nel fatto che a giudicare, per una volta, sia pure per gioco, sia il pubblico e non i soliti noti: gli editor onnipotenti, le camarille accademiche e feudali, i critici, quasi sempre opportuni e opportunisti, di questo o quel ‘cerchio magico’?
Ai detrattori che cercano scorciatoie, provando a demolire tutto solo sulla base del fatto che partecipino ai poetry slam anche brutte poesie e pessimi poeti, non è difficile rispondere. È vero, capita a volte, che a vincere un Poetry slam sia una ‘brutta’ poesia (così come capita che a essere pubblicati siano i libri peggiori, i più facili e prevedibili, quelli che sanno solo impilarsi sulla colonna dei molti altri, coprendone la polvere, in attesa di coprirsene, a loro volta)
E allora? Capita anche che vincano quelle davvero ‘buone’, quelle che stanno tentando strade nuove, quelle che un editore oggi non pubblicherebbe mai. Ma sempre, anche quando perdono, quelle poesie ‘buone’ hanno avuto l’occasione di dire la loro alla pari con le altre, con quelle che scelgono la via più semplice, quelle che ammiccano, che fanno il volo del tacchino sulle ali comode della retorica o del cabaret. Il problema, forse, sta tutto qua (e non è solo il problema dello Slam, ma quello d’ogni arte, oggi): può una poesia nuova ed efficace, formalmente matura e sperimentale, giungere al ‘pubblico’ senza mediazioni? Una volta a far da mediatori erano i critici, le istituzioni culturali, gli editori o la stampa.
Ma oggi? Oggi che i critici non hanno più strumenti se non per replicare il già detto e leggere il già scritto, oggi che i critici sono sordi e non sanno ascoltare la poesia che, joycianamente, si legge con le orecchie, che le istituzioni culturali sono svaporate nel nulla, che quasi ogni pagina culturale è in quota a qualcuno, a qualche valvassino in versi di questo o quel feudatario politico-culturale: chi media, oggi?
Oggi la poesia nuova, quella che già vive nel futuro, deve forse giungere al suo pubblico (un pubblico che ancora non esiste, beninteso, che lei stessa deve far nascere) da sola, contando solo sulle sue gambe, sulla sua capacità di conoscersi, mettersi in discussione, progettarsi. Non ha altre scelte. Il Poetry slam è tutto questo: è questo salto mortale su un abisso vuoto per giungere in salvo dall’altra sponda; ogni poeta che fa slam è un atleta di parkour, un acrobata che si prende il rischio e che ne paga le conseguenze, se il salto non riesce. Non è poco, anzi, oggi è quasi tutto.