Storica e senza precedenti la visita ufficiale di due giorni e mezzo di Barack Obama a Cuba. Senza precedenti almeno per quanto concerne un presidente degli Stati Uniti d’America perché, in realtà, l’unico inquilino della Casa Bianca che aveva messo piede all’Avana – 88 anni fa, era un repubblicano e si chiamava Calvin Coolidge – lo aveva fatto per partecipare a un summit panamericano e non per visitare ad hoc l’isola caraibica. Ma perché Obama ha deciso di volare a Cuba accompagnato dalla moglie Michelle e dalle due figlie Malia e Sasha e, soprattutto, quali sono le opportunità e le criticità di questo storico viaggio?
Che il primo presidente Usa di colore faccia davvero sul serio e abbia le migliori intenzioni nei confronti di Cuba, della sua popolazione e del suo governo, è risaputo. L’ultima dimostrazione è arrivata venerdì sera quando i cubani che assistevano sulla televisione di stato al celeberrimo programma “Vivir del cuento” sono rimasti a bocca aperta nel vedere il protagonista principale dello show, Pánfilo – una sorta di Chavo del 8 in salsa cubana o, se preferite, di Checco Zalone che non di rado critica il regime castrista in modo molto scherzoso (la censura, del resto, questo per ora consente) – parlare al telefono con Obama in persona. Non un montaggio, sia chiaro, ma la decisione, consapevole e meditata, della diplomazia statunitense di far partecipare “Mr President” come attore nello spettacolo più seguito della tv di stato di Cuba.
Del resto è dal 17 dicembre del 2014, quando Obama e il suo omologo cubano Raúl Castro annunciarono la fine delle ‘ostilità’ da Guerra Fredda e la riapertura delle relazioni diplomatiche, che i due paesi separati da appena 166 chilometri di mare si stanno, lentamente ma inesorabilmente, riavvicinando. Obama aveva annunciato in quella data ai media Usa che bisognava vedere “come evolvono le cose” prima di programmare una visita ufficiale all’Avana. Certo è che, da allora, Cuba non si è trasformata in una democrazia e continua ad avere un partito unico, il PCC, acronimo che sta per partito comunista cubano.
“Il rischio – e veniamo alla principale criticità ideologica della visita che inizia domenica pomeriggio, quando in Italia sarà già notte – è quello di legittimare una dittatura”, titola oggi Sky News che ha intervistato alcune voci di Little Havana, il quartiere di Miami, in Florida, dove vivono oltre un milione di esuli cubani e di loro discendenti. In realtà, soprattutto i cubani nati negli Stati Uniti che oggi sono maggioranza in Florida non vedono l’ora che l’embargo finisca, chi “per investire in immobili”, altri anche solo per andarci in vacanza. Già, perché l’altra criticità legata al viaggio obamiano è proprio l’embargo o, come lo chiamano a Cuba, el bloqueo, in vigore dal 3 febbraio del 1962 e accentuatosi durante la caduta dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90. Il presidente Usa ha invitato più volte il “suo” Parlamento ad eliminarlo, in quanto “antistorico” e inutile “visto che per oltre 54 anni non è servito a riportare la democrazia a Cuba”, ma non è stato ascoltato su questo come neanche su un altro punto del suo programma elettorale, la chiusura del carcere di Guantanamo, rivendicata a gran voce dal governo dell’Avana.
La terza problematica è legata all’incontro, previsto per il prossimo 22 marzo, tra Obama ed esponenti della “società civile cubana, compresi gli attivisti per i diritti umani”, ovvero quelli che da noi vengono chiamati dissidenti. “Non illudiamoci che Cuba cambi il suo modus operandi nel breve periodo, soprattutto sulla libertà di espressione, ma posso assicurarvi che il presidente Barack Obama sa degli ultimi arresti per motivi politici fatti sull’isola e s’incontrerà con almeno una decina di dissidenti”, ha detto qualche giorno fa Ben Rhodes, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca e grande supporter dell’apertura statunitense a Cuba.
Nelle ultime ore alcuni dissidenti hanno denunciato arresti domiciliari e pressioni da parte del regime per impedire che molti di loro – che i castristi accusano di essere finanziati da Washington – possano riunirsi con Obama. Staremo a vedere che accadrà martedì, anche perché, al momento, le diplomazie di entrambi i paesi hanno scelto il silenzio.
Molti sono, invece, i punti positivi della visita di Obama, a cominciare dalla ripresa del servizio postale diretto, dei voli diretti delle compagnie aeree, della fine della discriminazione cambiaria nei confronti del dollaro, dell’aumento del tetto annuale alle rimesse verso l’isola (oggi salito a 3mila dollari), dell’apertura per “viaggi culturali” all’Avana anche ai singoli cittadini statunitensi che prima o dovevano andare in gruppo o passare da un paese terzo. L’elenco dei progressi tra cui, ça va sans dire, anche la riapertura delle rispettive ambasciate all’Avana e Washington, è lungo e i dialoghi continui ed amichevoli su temi caldi come quello migratorio fanno ben sperare per il futuro. I primi a essere felici del viaggio di Obama all’Avana sono gli stessi cubani, che sperano finisca presto anche l’embargo economico affinché sull’isola arrivi un maggior benessere.
Del resto i risultati di un recente sondaggio lo dimostrano chiaramente: i 1.200 cubani interpellati hanno per l’80% un’immagine positiva di Obama (quella di Raul è più “umana”, al 47%), il 97% è felice dell’apertura, il 96% vuole la fine dell’embargo, il 65% viaggerebbe all’estero e poco più della metà, il 53%, pensa che nonostante propaganda ed embargo gli Stati Uniti siano grandi amici di Cuba. Insomma, come ripetuto più volte da Ben Rhodes “con la Cina è dai tempi di Nixon che facciamo business. Abbiamo tentato per 54 anni con l’embargo di far cadere il regime comunista del partito unico per trasformare Cuba in una democrazia. Purtroppo non ha funzionato e, dunque, questa visita ufficiale dimostra solo che è giunta l’ora di provare un’altra via”. Insomma, “Go Obama go!”. E stiamo a vedere che succederà.