Con una domanda interna ed estera deboli, la produzione rallenterà per smaltire le scorte accumulate, con riflessi negativi su occupazione, redditi e domanda interna, esercitando anche un’azione depressiva sui prezzi. E anche ammettendo che si proceda a un ritmo dell’1% l’anno bisognerà attendere il 2024 per tornare ai livelli pre-crisi
Il Pil nel 2015 è aumentato in Italia dello 0,8% in volume e dell’1,5% in termini nominali, ossia se si tiene conto anche della variazione dei prezzi. Il primo valore è utilizzato per misurare la crescita della quantità e qualità della produzione; il secondo si prende a base per una valutazione standard di alcune grandezze caratteristiche (il deficit, il debito pubblico, la pressione fiscale, ecc.).
Cosa c’è dietro quello zero virgola – Nel dibattito seguito alla diffusione dei dati, è stata messa in evidenza la debolezza della crescita italiana in rapporto a quella delle altre principali economie (+2,4% negli Stati Uniti, +2,2% nel Regno Unito, +1,7% in Germania, +1,2% in Francia) e le difficoltà che stanno emergendo nel recuperare le pesanti perdite accumulate negli ultimi anni. Procedendo a un ritmo dell’1% l’anno, bisognerà attendere il 2024 per tornare ai livelli pre-crisi del 2007. È stato, tuttavia, in gran parte trascurato un aspetto affatto secondario: la qualità della crescita. Attraverso la scomposizione della variazione del Pil in volume, è possibile ricavare un’informazione fondamentale non solo per chiarire il quadro macroeconomico attuale, ma anche per sapere cosa ci aspetta nell’immediato futuro. Analizzando i contributi alla crescita, nel 2015 in Italia si è importato (+1,6%) più di quanto si è esportato (+1,3%) con un saldo netto con l’estero negativo (-0,3%); si è consumato poco (+0,5%) e investito quasi per nulla (+0,1%), con la conseguenza che la produzione in eccesso è andata ad aumentare le scorte di magazzino (+0,5%). E l’eredità lasciata al 2016 potrebbe rivelarsi pesante. Con una domanda interna ed estera deboli, la produzione rallenterà per smaltire le scorte accumulate, con riflessi negativi su occupazione, redditi e domanda interna, esercitando anche un’azione depressiva sui prezzi.
In Germania le cose sono andate in tutt’altro modo. Pur non avendo quest’anno particolarmente brillato (+1,7%), i consumi delle famiglie sono aumentati dell’1%; si è utilizzata la leva pubblica (+0,5%) grazie all’assenza di deficit e le scorte sono diminuite (-0,4%). Anche nel medio periodo il confronto appare impietoso. Rispetto al 2007 il Pil italiano è diminuito dell’8,3%, mentre quello tedesco è aumentato del 7,1%. Nei lunghi anni della crisi, la domanda nazionale nostrana è stata fortemente negativa, sia per quanto riguarda i consumi (privati e pubblici) sia per gli investimenti fissi lordi.
Giocare con i dati: le continue correzioni – In questo quadro strutturalmente affatto rassicurante, trova spazio anche la questione della revisione dei numeri già diffusi in via provvisoria e sistematicamente ridotti che negli ultimi anni ha avuto carattere sistematico, con l’effetto di amplificare in positivo – anche se in misura marginale – il dato più recente. Rispetto alla prima stima, il Pil nominale del 2012 e 2013 è diminuito di quasi 15 miliardi di euro (-0,9%) e quello del 2014 di 4,2 miliardi (-0,3%). La riduzione ha riguardato sia il deflatore (i prezzi sono aumentati meno di quanto detto inizialmente), sia la crescita reale. Ha destato particolare interesse la revisione dei consumi delle amministrazioni pubbliche del 2014, passati da 314,5 a 312,5 miliardi di euro. Contemporaneamente all’Istat, il ministero dell’Economia e delle Finanze il 1° marzo scorso ha ampiamente modificato il fabbisogno dello Stato per il biennio 2014-2015. Rispetto ai dati precedentemente pubblicati (l’ultimo quello di dicembre 2015 era stato diffuso appena 15 giorni prima), sono stati resi noti numeri completamente diversi. Il saldo del fabbisogno dello Stato per il 2014 si ridimensiona da 77 a 75,4 miliardi di euro, mentre nel 2015 passa da 59,5 a 60,3 (+0,8 miliardi). Ma a diminuire fortemente sono sia gli incassi (di 63 miliardi nel 2014 e 51 nel 2015) che i pagamenti (di 65 miliardi nel 2014 e 50 nel 2015).
Ministero e Ragioneria avari di spiegazioni – Il Mef e la Ragioneria Generale dello Stato (sul cui sito è consultabile la nuova serie storica dal 2008) al riguardo sono stati avari di spiegazioni, anche se sembra potersi desumere che i radicali cambiamenti possano avere a che fare con “il perimetro al quale i dati si riferiscono”, ovvero l’elenco delle amministrazioni pubbliche classificate nel sotto-settore delle amministrazioni centrali dello Stato. Un aiuto all’interpretazione dei numeri, che ormai si susseguono con cadenza pressoché quotidiana, sarebbe stato gradito anche in occasione del rilascio delle entrate tributarie per il 2015 da parte del Dipartimento delle Finanze. Il gettito erariale (imposte dirette e indirette) e territoriale, registrato secondo il criterio della competenza giuridica è aumentato del 3,4%, laddove l’Istat – che invece considera la competenza economica – registra un più contenuto 0,6%. Con l’apparente paradosso che lo scorso anno gli italiani hanno pagato 16,5 miliardi di euro di tasse in più, ma la pressione fiscale è diminuita. In questa girandola di cifre ben pochi ormai si raccapezzano, mentre, invece, sarebbe meglio per tutti avere sotto gli occhi un quadro chiaro e non contraddittorio.
Da Il Fatto Quotidiano del 16/03/2016