Cultura

‘Love bombing’ e ‘Pigmalione’: il teatro a Napoli va a due velocità

“Il “love bombing” è uno sforzo coordinato, generalmente su ordine della dirigenza, per sommergere reclute e neofiti di lusinghe, seduzione verbale, contatti carichi di affetto, e molta attenzione verso qualsiasi osservazione venga fatta. Il love bombing, o offerta istantanea di compagnia, è uno stratagemma ingannevole usato da molti reclutatori di successo” (Margaret Singer, “Cults in our midst”)

Il teatro a Napoli va a due velocità. Se da una parte la tradizione (più finanziata) la fa da padrona (con l’eco mai sopita di Eduardo, Scarpetta e Totò) dall’altra il fermento delle periferie batte sul bandone del domani, fa rumore, per quanto e come può, sta ai margini lì dove c’è più bisogno di parole, visioni, colori, di temi da affrontare, non si rintana ma affronta gli spazi che, adesso, gli è stato possibile prendere e occupare. Due giorni napoletani che fanno corto circuito, San Ferdinando e Napoli Est, l’aristocrazia dei salotti e la sgarrupatezza dei segni dei writer, le loro firme smodate su calcinacci e cancelli divelti. Tra i due ambiti inutile sottolineare chi ha più da dire, chi abbia più da raccontare. Il teatro è apertura sulle ferite, è rimarginare tentando di capire, sviscerare, domandare. Se da una parte arriva una bidimensionalità d’intrattenimento (ne abbiamo ancora davvero necessità?), dall’altra ti travolge il magma e la forza, la voglia e la tensione verso l’altro; se da una parte ci si scambiano sorrisi, dall’altra c’è un contatto differente, che è richiesta di vicinanza, militanza, diventa comprensione, comunità.

A cura dello Stabile, uno dei sette teatri nazionali, il “Pigmalione” ha mostrato tutti i suoi anni, le tematiche superate, tutta la polvere accumulatasi in questo tempo di cambiamenti sociali epocali, di stratificazioni, di piccole grandi rivoluzioni. Se il teatro non parla all’oggi, se dal palco non si riesce a trovare alcun appiglio di comprensione del contemporaneo, si fa soltanto archeologia, e per quella possono bastare i libri, i volumi, gli studi. Lo spettacolo dal vivo ha senso proprio perché il respiro, il cuore, il sudore dovrebbero scorrere e battere, sopra e sotto al palcoscenico, in un unico fragore.

Come si fa oggi (“Pigmalione” ha visto la luce nel 1912) a dissertare su un aristocratico (dove sono?) che vuole elevare una rappresentante del popolino a signora di società? Tutto stride, come parlare di alieni o dinosauri ma senza la curiosità e il mistero che omini verdi e rettili giganteschi possono innescare. Se gli aristocratici si sono quasi estinti, oppure i loro titoli valgono ben poco se non supportati da doti robuste, il cosiddetto “popolino” è un pot pourri eterogeneo che non fonda più le sue basi sulla mancanza di possibilità materiali visto che queste ultime si sono allargate e a prezzi bassissimi, vedi internet, tecnologia, abbigliamento, gli status symbol di un tempo. Con rate e finanziamenti si può accedere, anche se non te lo potresti permettere, a macchine e orologi, all’ultimo modello di iphone. Camminando per strada non c’è più differenza visibile, palese e lampante. Non esistono più le caste. Teatro come passare il tempo in modo conservatore e reazionario oppure teatro come ponte verso domani, un teatro che ci dà tutte le risposte consolatorie e un teatro che ci pone interrogativi, anche irritanti, fastidiosi e complicati.

Se al San Ferdinando la regia di Benedetto Sicca (che conosciamo per le sue intense performance complesse, articolate, ricche e strutturate) è un mix tra paternalismo e buone maniere d’annata, dove qualche rarefazione e idea, come il velato che divide la scena quasi un vetro fumé opaco nostalgico e trasognante, si perdono nell’obsoleto di una lotta di classe (quasi apartheid: “bestiolina presuntuosa”) che non ha più fondamenta, che fa acqua da ogni parte con una traduzione (di Manlio Santanelli) che certamente non aiuta ma ulteriormente fa affondare nelle sabbie mobili di un tempo che fu. L’idea della formazione e della costruzione di un uomo nuovo, Robinson Crusoe o Frankenstein, qui più “Pretty woman” o “Una poltrona per due”, nei salotti borghesi diventa farsa in salsa in questo presepe di statuine immobili, che mai osa, che mai rischia in mezzo a tesi sociologiche più che rivedibili come quella che il povero non sia una persona perbene ma almeno sia libero o che proprio i mendicanti siano gli unici ad essere veramente felici. Da questa rappresentazione inoltre si evince una pesante forzatura che Maffei (che fa) e Puoti (che può), i due amici dell’upper class siano in definitiva una coppia di fatto e vede la signorina Diodato (alla quale le è stato dato un deus ex machina) come un’alunna o al massimo una figlia in un secondo atto piatto, monotono che non ingrana mai.

Altra storia al Nest, meno risorse ma più inventiva a partire dalla struttura contenitiva e claustrofobica dove in “Love bombing” (scritto e diretto da Giuseppe Miale di Mauro) si assiepa questa ciurma, manipolo di antieroi (i più convincenti Giuseppe Gaudino e Gennaro Di Colandrea per presenza), di imperfetti in un mondo post atomico, schiacciati in un bunker come topi, nascosti come cristiani nelle catacombe (hanno nomi biblici: Davide, Matteo, Luca, Pietro, Giovanni, Gabriele) dentro un garage sporco che ci ha ricordato il Teatro delle Albe e il loro “Sterminio” da Schwab. Sono borderline, non hanno più niente da perdere, sono ridotti allo stato animale e primitivo nel loro gramelot onomatopeico, nelle divise militari stinte e sciolte nell’acido.

Fuori c’è un mondo dissolto nella guerriglia civile di religione che contrappone cattolici e musulmani. Curioso che il testo sia stato scritto tre anni fa quando dell’Isis se ne sapeva poco o niente. La prima parte è decisamente più forte proprio perché meno concreta e molto metaforica, dove tutto resta sospeso, sganciato dalla cronaca, con questi uomini-vittime come nuvole gonfie senza meta a fluttuare in un recinto ormai incomprensibile. Nella seconda invece appaiono teorie populiste e spiegazioni semplicistiche geopolitiche che raffreddano gli entusiasmi, assieme ad una colonna sonora troppo sottolineante. Ma la messinscena è poderosa con questi corpi-pianeti che ruotano e si scontrano e con Adriano Pantaleo che fa da scheggia impazzita e collante, vero puk-Pinocchio in un gioco al massacro in stile “La parola ai giurati”.