I principali giornali celebrano il V centenario del più grande editore di tutti i tempi, Aldo Manuzio, vero fondatore dell’editoria come impresa, nato nei pressi di Sermoneta (1449-1515). Paginate per lanciare qualche mostra, articoloni per esaltare il genio di questo coltissimo stampatore, editore e tipografo, che andava a braccetto con tutti i più grandi scrittori-pensatori del suo tempo (e allora, come si dice, era gente di un certo peso nella storia mondiale) da Erasmo da Rotterdam in giù.
Un signore che diventò ricco e famoso scegliendo di pubblicare non in inglese, ma in latino, greco, ed ebraico ed elaborando (con il bolognese Grifo) caratteri (font) che si imposero in tutto il mondo per la loro bellezza. Un nome che è arrivato a condizionare la vita dei nostri giorni, segnando tra l’altro anche i destini di un’azienda come Apple. Un marchio italiano nel mondo, come dicono i presidenti del consiglio in vena di peana ad se ipsum e gli uomini del marketing. Chiedo scusa ai lettori, però a me, queste celebrazioni fanno venire mal di pancia, tristezza e un po’ di acetone, i cui motivi cercherò gentilmente di spiegare.
Capisco che siamo un paese di schizofrenici e la malattia è diffusa in tutto il mondo. Diciamo di amare la pace e poi facciamo di tutto per alimentare le guerre; siamo contro la vivisezione, ma poi accettiamo ferire che migliaia di bambini muoiano in mare alla ricerca di un futuro migliore. Diciamo che la cultura è il grande patrimonio italiano, ma quando c’è da tagliare, quello è il primo settore a venire colpito. Sarà anche normale strillare sui giornali il nome di Aldo Manuzio e poi far morire l’editoria, in particolare quella scientifica e di qualità, ma trovo che chi lo fa senza rendersi conto dell’assurdo, chi ha la responsabilità di queste cose, dovrebbe sottoporsi a visita psichiatrica.
L’Italia, ad esempio, ma non per caso, aveva il successore di Aldo Manuzio e di Giambattista Bodoni. Si chiamava Hans Mardersteig, stampava libri al torchio richiestissimi, prezzi da capogiro sul mercato. Nel dopoguerra aveva impiantato anche una stamperia industriale di altissima qualità, poi guidata dal figlio Martino, la stamperia Valdonega, che pubblicò le prime edizioni delle collezioni più belle apparse sul mercato libraio italiano del dopoguerra, tra gli altri la serie Ricciardi dei Classici della Letteratura Italiana, i classici Adelphi, la ricercatissima collezione di sociologi ed economisti realizzata della Cofide e curata dal mai abbastanza rimpianto Renzo Zorzi. Insomma, avevamo la Rolls Royce dell’editoria, oggi chiusa per mancanza di commesse, e nessuno si è mosso. Forse però faranno una mostra… Tutto grazie all’insipienza di Enti pubblici e privati, banche e imprese, che anziché assegnare lavori ad aziende del genere, preferiscono foraggiare l’amico scalcagnato di turno (poi regolarmente fallito, nonostante gli aiutini).
E infatti, mentre il mondo della grande editoria è quello che tutti vediamo, mentre Rcs non trova di meglio, per ripianare i conti di una gestione dissennata, che vendere il settore librario al concorrente diretto (Mondadori) – determinando un impoverimento netto del mondo dell’editoria italiano – tutta l’editoria storica italiana di qualità – non quella e non solo quella che pubblica i libri d’arte patinati ma quella che con grande cura da molti decenni pubblica saggi scientifici di grande valore e purtroppo limitata circolazione – langue o sopravvive solo grazie a sacrifici indicibili. Penso a un editore, ad esempio, come Olschki di Firenze, con una storia ultra centenaria, un catalogo di pubblicazioni scientifiche da far invidia a qualsiasi altro editore al mondo, che andrebbe difeso e tutelato come si fa con un bene artistico di prim’ordine, solo consentendogli di fare ciò che è capace di fare. E a tutti gli altri editori scientifici italiani, che nel silenzio assordante delle istituzioni italiane, ogni anno sono sul punto di chiudere, schiacciati dal disinteresse generale e dall’insipienza ministeriale, che a disgrazia ha saputo aggiungere altra disgrazia, penalizzando nel provincialismo imperante le pubblicazioni in lingua italiana. E nel frattempo il mondo degli ebook stenta a decollare, dimostrando a tutti che la crisi dei libri non è una questione di supporto o di evoluzione tecnologica, ma banalmente di numero di lettori e quindi di qualità dei prodotti.
Poi capita di guardarsi indietro, pensare se le cose sono sempre andate così e constatare ad esempio, che nella mia città (ma non solo), dove la cultura è ormai più deserta della Valle della morte, una volta i comportamenti erano differenti, se fu proprio un oscuro veronese, tale Leonardo Grassi, a finanziare alla fine del XV secolo il più bel libro illustrato dell’umanesimo, quella Hypnerotomachia Poliphili, che appunto farà di sé bellissima mostra, nell’esposizione veneziana di Aldo Manuzio. Atri tempi, altri investimenti. Insomma, a parte il fastidio per l’ipocrisia, a parte la sensazione odiosa di una celebrazione che rinnega se stessa, perché nel nostro Paese gli eventi culturali devono sempre avvenire a babbo morto, perché devono avere il sapore più di un funerale che di una festa? Perché non devono servire a celebrare e a stimolare la vita e la crescita di attività rispettose della cultura e delle donne/uomini che si battono per essa? Temo (e non vorrei che) se non troveremo una risposta adeguata a queste domande, apparentemente secondarie rispetto ad altri problemi che ci angustiano, le conseguenze saranno ben più gravi di quello che oggi possiamo immaginare.