I bimbi della guerra chiedono scusa per qualcosa che altri hanno fatto, i bimbi della guerra nascono nei campi profughi e vengono lavati con una bottiglia di sapone fuori da una tenda. I bimbi della guerra alzano cartelli troppo grandi per loro, per comunicare un pensiero che non dovrebbe neanche appartenergli (“Sorry for Bruxelles”). I bimbi della guerra conoscono la parola “confine” così come quelli delle carceri conoscono la parola “sbarre”.
Di fronte alle guerre siamo tutti uguali, stessa paura, stessa polvere, stessi detriti addosso. Stesso il modo di scappare, di mettere al riparo se stessi e gli altri, con i figli in braccio o trascinati via per mano.
L’Europa oggi, la Siria tutti i giorni. Quando si scappa si scappa, con gli abiti cenci e i detriti sul viso, asciugandosi gli occhi per vedere la strada. La strada fuori dall’aeroporto, fuori dal tunnel della metropolitana, fuori dalle piazze gremite di manifestanti a Istanbul o da un’università in Kenia. La via di fuga da un supermercato Kasher, dalla redazione di un giornale, da un teatro. Ma soprattutto via di fuga da un paese in guerra, attraverso le frontiere verso il nuovo mondo.
Dicono sia stato colpito il cuore dell’Europa, sempre che l’Europa esista ancora. L’Europa attenta, quella dell’accoglienza, dell’Unione, dei trattati, delle frontiere aperte, dei corridoi umanitari.
L’Europa oggi, la Siria tutti i giorni. Non c’è un decalogo del terrore, né una scala del dolore. La guerra è guerra, ovunque e sempre, porta dietro lo stesso odore di deflagrazione. Lo stesso odore che in Siria colpisce non solo gli obiettivi sensibili, ma i luoghi della quotidianità. Si fugge da una scuola, da un quartiere abitato, da un ospedale, da un reparto di neonatologia, da un’incubatrice che diventa trappola invece che salvezza.
Il mio pensiero va ai bimbi delle guerre, perché dietro la loro vita c’è quella delle loro famiglie, madri, padri, fratelli, nonni, zii ma anche amici e compagni di viaggio. Il mio pensiero va alle spalle dei papà migranti, che servono ad accorciare la fatica dei più piccoli, ai bambini che nascono in fuga, piccoli involontari clandestini. Il mio pensiero va al bimbo di Idomeni, senza nome ma con la garza al braccio e una fotografia sbattuta in prima pagina. Che rabbia vedergli chiedere scusa. Che rabbia sapere che nessuno si rivolge a lui come a un bambino.
Caro bimbo di Idomeni, come stai? Che hai fatto al braccio? Hai fame, sonno, vorresti tornare a scuola? Avrai un nome, una famiglia e una storia da raccontare. Ma le responsabilità non sono tue. E allora, caro bimbo di Idomeni, abbassa pure il cartello, rimetti a posto la maglietta, che scusa oggi te la chiediamo noi.