Il mio tempo si è fermato. A tratti anche il respiro, schiacciato da un macigno che mi arriva sul petto all’improvviso e mi costringe ad annaspare; un’apnea che resta immobile tra le abitudini quotidiane e la consapevolezza di essere parte di un mondo più complesso, spesso incomprensibile, inaccettabile. Una bolla, un non luogo dove la coscienza, il senso di responsabilità e l’indignazione si scontrano con l’egoismo, l’opportunismo, le incoerenze e l’indifferenza con cui tutti facciamo i conti… nastro isolante che a volte mi stringerei al cuore, per non percepire il dolore.
NO, is not Auschwitz 1942, is Europe in 2016.
Pubblicato da Jose Luis Urriago Novoa su Martedì 2 febbraio 2016
Mi si è fermato il tempo, ho congelato le parole. Sono le cinque del mattino e guardo mia figlia dormire al mio fianco, al riparo di una coperta morbida e sicura. Il suo viso sembra dipinto, a rappresentare il sogno tranquillo, mentre la Storia e il suo Tempo sono anch’essi fermi, a Idomeni e di fronte a tutti gli altri muri, più o meno solidi, che siamo stati capaci di erigere per difendere la nostra inammissibile e disdicevole sensazione di superiorità e supremazia.
Unione Europea. 2016. Fango e fame, febbre, fatica, figli. Filo spinato, ferita aperta, freddo, fiume, fragilità. Frana e deriva dell’indifferenza. E la paura di sentirsi contagiati dalla sofferenza e dalla povertà, dalla guerra, dalla fuga disperata di popoli interi. L’Unione Europea muore a Idomeni, e l’accordo siglato con la Turchia è quanto di più meschino potesse produrre. Lo hanno chiamato “Accordo ponte”, ma i ponti creano collegamenti, contatti, legami; i ponti superano le distanze, rendono più semplici le traversate, partono da un presupposto di condivisione dello spazio e delle diversità. Qualcuno pensa di prenderci in giro con le parole, e in parte ci riesce. Questo è un accordo fatto di muri e respingimenti, di rifiuto, paura, incapacità e non volontà di affrontare i flussi migratori che inevitabilmente continueranno ad esserci e che gli stati europei pensano di tamponare senza riuscirci, mentre ci si macchia per sempre e storicamente di qualcosa che tanto ricorda le deportazioni nazi-fasciste. Il piano messo in atto dall’Unione Europea è altrettanto infame, anche se più strisciante e subdolo, perché scarica un barile scomodo fatto di esseri umani mercificati, pensando così di alleggerire la sua falsa coscienza. Siamo nell’infamia più atroce e meschina, siamo nell’assenza di dignità. Siamo nella vergogna che non rivendica e non vuole smascherarsi. Il lavoro “sporco” lo fa una Turchia per nulla raccomandabile sul profilo del rispetto dei diritti umani; la paghiamo per farlo, tre miliardi di euro usati per sbarazzarsi di migliaia di persone che non smetteranno di camminare fino a quando avranno respiro.
Credetemi, non c’è bisogno di sparare attraverso un filo spinato per essere chiamati assassini. A dire che Idomeni è una nuova Dachau non è qualche giornalista “invasato”, ma il ministro degli interni greco; e la parola “deportazione” è ormai usata da tutti, perché questo è ciò che avverrà. Un punto preciso è oggi segnato nella Storia. Che è ciclica, e si ripete. Sembra sia inevitabile. Lo sarà se non saremo in grado di urlare forte il dissenso e la vergogna di essere cittadini di questa Europa. Nel dire che oggi questa Europa sta uccidendo la speranza e preserva popoli di serie A, a discapito di altri che non si può dire, ma nei fatti sono considerati “inferiori”.
Complici e inermi, sentiremo un giorno l’acqua salata del mare nei nostri polmoni, e il fango tra le mani, e i morsi della fame. Non è costruendo muri, che proteggeremo i nostri figli. I nostri figli ci chiederanno conto dei fatti, non delle parole, e anche questo mio articolo durerà il tempo di un clic ma prova a essere un amplificatore di voci, un megafono. È oggi il mio unico strumento di dissenso. Mi appello quindi a tutte le grandi organizzazioni no profit, sindacati, associazioni, attivisti, movimenti, e a quella società civile che non si rassegna ad assistere all’ennesima prova di inefficienza e criminalità di chi ci governa. Troviamo uno strumento comune che faccia sentire un’unica voce, certamente più forte di tante voci sparse e costrette alla solitudine e a quella frustrazione che genera inevitabilmente senso di impotenza. Non sono un’illusa, forse una pazza, una visionaria, che nutre ancora la speranza che “Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio” (Antonio Gramsci).