Dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015, si è aperta una giusta riflessione sulla islamizzazione della radicalità, contrapposta alla radicalizzazione dell’Islam.

Una riflessione importante, perché prova a spazzare via quella cortina di fumo che implicitamente o esplicitamente viene alzata di fronte ad un conflitto le cui radici sono coperte da un tabù, da un non detto indicibile, perché renderebbe il Re nudo.

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Olivier Roy, dalle colonne di Le Monde, ha scritto che il problema della radicalizzazione in Francia riguarda solo due categorie di persone: i giovani (figli di) immigrati di seconda (non terza!) generazione e i giovani francesi convertiti all’Islam. Una analisi che si può certamente estendere a tutto l’Occidente. “Perché i convertiti – scrive Roy – che non sono mai stati vittime del razzismo, vogliono improvvisamente vendicare l’umiliazione subita dai musulmani? Teniamo presente che molti convertiti vengono dalle campagne francesi e hanno pochi motivi per identificarsi con una comunità musulmana che per loro ha un’esistenza quasi esclusivamente virtuale. In altre parole, questa non è la rivolta dell’Islam o dei musulmani, ma un problema che riguarda due categorie di giovani. Non è una radicalizzazione dell’Islam, ma un’islamizzazione del radicalismo”.

Questi giovani pronti a diventare “martiri”, hanno abbracciato un “Islam salafita, ovvero un Islam che rifiuta il concetto di cultura, un Islam della regola che gli permette di ricostruirsi da sé. Non vogliono la cultura dei genitori e nemmeno una cultura ‘occidentale’, che ormai è il simbolo del loro odio verso se stessi”. Secondo Roy, “Questo individualismo forsennato si ritrova nel loro isolamento rispetto alle comunità musulmane. Pochi frequentano una moschea e i loro imam sono spesso autoproclamati. La loro radicalizzazione si sviluppa attorno a immagini di eroi, alla violenza e alla morte, non alla sharia o all’utopia. In Siria vanno solo per combattere, nessuno di loro si integra o si interessa alla società civile. Sono più nichilisti che utopisti”. E dunque, “Non si può capire il radicalismo islamico se non si comprende che riprende (e islamizza) un’area tradizionale di contestazione, che si tratti di anti-imperialismo, di mobilitazione degli spazi di esclusione sociale e di radicalizzazione dei giovani intellettuali… Alla base del fenomeno c’è un nichilismo, una repulsione per la società”.

Lo Stato Islamico, Daesh, lo Jihadismo, sono, per Roy, “l’unica causa radicale sul mercato”. È questo il punto fondamentale da affrontare: la conclusione cui giungono Roy e moltissimi altri analisti che contrastano l’assurdità del concetto di “Islam radicale” è assolutamente sensata, anche se le analisi da cui questa conclusione viene tratta mancano di un aspetto che è fondamentale. Certamente alla base del fenomeno Daesh non c’è, soprattutto in Occidente, una grande consapevolezza o cultura sociale o politica. E certamente c’è del nichilismo nell’indossare un giubbotto e farsi esplodere in mezzo alla folla. Ma la rivolta, per quanto selvaggia e rozza, di chi si riconosce in Daesh ha delle motivazioni fortissime che non si possono ricondurre solo alle “paturnie generazionali” o al nichilismo di chi ha il nulla come riferimento culturale.

Alla base del consenso di Daesh c’è, più o meno consapevolmente, il rifiuto violento di una società, di un mondo costruito su una gigantesca disuguaglianza che è altrettanto violenta. Da un lato una ribellione ad uno stato di cose presenti, che vede 62 (sessantadue) persone – 53 uomini e nove donne – detenere una ricchezza superiore a quella detenuta dai 3,6 miliardi di poveri che abitano il nostro pianeta. E dall’altro, il fatto, troppo spesso sottovalutato (o stupidamente e strumentalmente bollato con gli “ismi”), che l’Occidente ha scelto da decenni la guerra come unico strumento per difendere esattamente quella mostruosa disuguaglianza che forse non ha pari nella storia.

La guerra guerreggiata (sono 223 i conflitti armati censiti nel 2015) che se non è fatta direttamente dalle potenze occidentali vede queste in qualche modo sempre coinvolte, è il modello che i paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prediligono e quindi propongono o impongono, essendo quei paesi i principali produttori ed esportatori di armi al mondo. Poi c’è la guerra delle frontiere: ogni giorno ai nostri confini uccidiamo o lasciamo che muoiano decine, centinaia di persone. Ai margini dell’Europa centinaia di migliaia di bambini, donne, uomini e anziani vengono stipati in “campi” che sarebbero indegni, oltre che inadatti,anche per contenere bestiame. Persone che scappano dalla miseria e dalla guerra, prive di qualsiasi diritto, cacciate indietro a bastonate: “Siete entrati come topi, come topi vi faremo uscire”.

Probabilmente, nella testa di chi si fa saltare in aria con una cintura esplosiva non c’è la consapevolezza di una ribellione a questa devastante situazione di ingiustizia e di disuguaglianza. Esattamente come nella testa di chi pilota un drone o sgancia una bomba o lancia un missile (armi che colpiscono civili inermi per il 90 per cento dei casi, tanto quando le cinture esplosive), non c’è la consapevolezza di condurre una guerra a difesa di 62 persone o dell’1% della popolazione mondiale. Al massimo i più consapevoli, pensano di difendere la nostra “misera” ricchezza, quella di una classe media sempre più impoverita ma che, comunque, è infinitamente più ricca dei miseri del mondo. E mentre da questa e da quella parte del fronte ragazze e ragazzi seminano morte, disperazione e ancora nuova povertà, qualcuno ride e vede crescere ancor più i già spropositati profitti.

Questa situazione di drammatico squilibrio non può che generare un rifiuto radicale. E, appunto, lo Stato Islamico, Daesh, lo Jihadismo, sono “l’unica causa radicale sul mercato”. Se si vuole seriamente affrontare e risolvere la “questione Daesh” o il terrorismo, si deve risolvere la devastante e clamorosa ingiustizia che l’Occidente, con le sue guerre, sta difendendo. E costringere quelle sessantadue persone a restituire il maltolto. Trovare un modo per riprendere le ricchezze che l’1% della popolazione mondiale ha espropriato al rimanente 99%.

Essendo necessariamente radicali e quindi proponendo una diversa, non violenta e certamente più giusta radicalità, si potranno sottrarre risorse umane a Daesh. Di certo, non è la guerra che potrà fermare il terrorismo. E invece, Bruxelles, Baghdad, Kabul, Parigi, Tripoli, Damasco, Bamako, Ouagadougou, Abidjan: l’elenco delle stragi, l’elenco dei nomi delle vittime civili dei conflitti è sempre più lungo, mentre lo sguardo della politica dell’Europa e dell’Occidente sulle grandi questioni che hanno scatenato questa nostra guerra è sempre più breve.

Disuguaglianza, migrazioni, sfruttamento, profitto, in una parola: soldi. Sono questi i nodi da affrontare, ora, subito, per fermare la violenza, per zittire il crepitio delle armi, per far cessare i boati delle esplosioni. Costruendo politiche di sviluppo e crescita, impedendo la vendita di armi a paesi in guerra, cessando collaborazioni pur lucrose con i Paesi che sostengono l’Isis. Se si aguzza lo sguardo, insomma, non è difficile vedere che il Re è nudo e il non detto si può benissimo dire.

È un’altra la religione da sconfiggere, come dice la scrittrice Ludovica Candiani: “la religione dell’emarginazione, però, non quella islamica. La religione del capitale e dell’accumulo, che pretende – sempre – l’esclusione di qualcuno, dalla spartizione della torta. Una religione figlia dell’Occidente, sia chiaro, nata dalla semplificazione che, per sineddoche, identifica la parte per il tutto. La religione dell’ignoranza e della deresponsabilizzazione. Di massa. E la massa, siamo tutti noi”.

È tempo, insomma, di fare una scelta radicale tra la borsa e la vita, la nostra vita. Credo sia meglio per tutti se si sceglie la vita, anche perché la borsa in questione è davvero spropositatamente grande, e per di più non è la nostra.

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