Nel quartiere simbolo degli ultimi due attacchi in Europa, condotti due blitz in 4 mesi alla ricerca del latitante. Ma il suo arresto alla fine ha accelerato gli attacchi
Trecento metri, cinque minuti a piedi, lo spazio di una passeggiata che diventa il simbolo della sconfitta delle polizie europee. È la distanza che separa i due indirizzi della caccia all’uomo che avrebbe potuto svelare in tempo la struttura della cellula cresciuta nel quartiere di Molenbeek, a Bruxelles, la base operativa dei jihadisti belgi e francesi. Ponendo fine con quattro mesi di anticipo alla fuga di Salah Abdeslam, l’uomo chiave che unisce gli attentati del 13 novembre a Parigi e le bombe all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles le cui impronte sono state ritrovate dagli investigatori nel covo dei fratelli El Bakraoui nel quartiere di Forest. Lì la polizia aveva tentato un blitz qualche giorno fa, facendosi sfuggire due occupanti e uccidendone un terzo, l’algerino Mohammed Belkaid. A Forest – luogo dove i destini dei jihadisti per un momento si incrociano – c’era il covo affittato – secondo i media francesi – da uno dei due kamikaze che si sono fatti esplodere nella hall dell’aeroporto e nella metro di Bruxelles. Non erano soli: proprio qui sarebbe passato lo stesso Salah, segnando un contatto strettissimo tra i due fratelli autori degli attentati di Bruxelles e l’unico sopravvissuto del commando in azione il 13 novembre a Parigi. A rafforzare quel legame ci sono i file ritrovati nel computer di Ibrahim El Bakraoui: “Non voglio finire in una cella come Salah”, si legge in una sorta di testamento scritto poco prima dell’attentato. E un audio, dove – secondo le prime indiscrezioni riportate da Tf1 – i due fratelli annunciano di voler agire “per vendicare l’arresto di Salah Abdeslam, il 18 marzo, e la morte di Mohammed Belkaid”. In altre parole tutti componenti di una stessa cellula, che la cattura di Salah, ricercato numero uno per quattro mesi, avrebbe potuto smantellare in tempo. Il segno inequivocabile del legame operativo che attraversa i due attentati, quello di Parigi e di Bruxelles.
I giorni da primula nera del Califfato di Salah, con il fiato sul collo della polizia e dell’intelligence belga e francese, mostrano in realtà il fallimento delle forze di sicurezza.
Era la notte tra il 15 e il 16 novembre dello scorso anno, appena due giorni dopo la strage del Bataclan. Verso l’ora di pranzo le forze speciali belghe fanno irruzione in un appartamento al numero 47 di rue Delaunoy. Cercano Salah, il ragazzo di origine marocchina unico sopravvissuto del commando entrato in azione a Parigi. Sanno che è tornato a Bruxelles, in un appartamento vicinissimo al bar che fino a poco tempo prima gestiva insieme al fratello Brahim, chiuso dopo un controllo amministrativo. Ma la primula nera di Daesh era già fuggita perché aveva capito di avere i poliziotti sulle sue tracce. A rivelarlo, un mese dopo il blitz mancato, era stato il ministro della Giustizia belga Koen Geens nel corso di una trasmissione televisiva dell’emittente VTM. Salah Abdeslam, secondo il ministro, “si trovava verosimilmente in un appartamento di Molenbeek” due giorni dopo il massacro. In quelle ore concitate, infatti, si era diffusa in tutto il mondo la notizia dell’arresto del ricercato numero uno. Una notizia poi smentita dalle autorità belghe. Secondo il quotidiano Het Laatste Nieuws la polizia belga aveva ricevuto l’informazione che Salah si trovava in quella via, ma non avrebbe potuto fare irruzione nell’appartamento “perché la legge impedisce le perquisizioni tra le undici di sera e le cinque del mattino”. Una spiegazione assurda, ma che fa capire le difficoltà dell’intelligence fiamminga di fronte al network terroristico. “Salah? Abita a cento metri da qui”, raccontavano quasi con aria di sfida alcuni adolescenti a France TV mentre le forze speciali lasciavano l’appartamento. E, in fondo, non avevano tutti i torti.
Quattro mesi dopo Salah viene catturato a meno di 300 metri da questo indirizzo. Pochi passi, due isolati. Rue des Quatre-Vents, al numero 79, appena superata la moschea di Al Khalil. Al piano terra il 18 marzo scorso – quattro giorni prima del duplice attentato di Bruxelles – alle 16.50 la polizia belga trova e arresta Salah. La fuga della primula nera finisce dove tutto era iniziato.
In mezzo c’è il quartiere di Molenbeck, che racchiude tutte le contraddizioni della capitale europea. Multietnico, ma non in grado di garantire le opportunità e i diritti reali a tutti. Disoccupazione al 30%, scolarità bassa, con la metà dei giovani che non finiscono gli studi. E un 20% della popolazione con un reddito al di sotto della soglia di povertà. In mezzo a quei 300 metri c’è poi una delle principali moschee, unico vero riferimento culturale dell’area. E qui cadono anche i tanti luoghi comuni diffusi in questi giorni: Salah era distante anni luce dalla vita religiosa, raccontano gli abitanti della zona. E oggi sul sito della moschea Al Khalil appariva un lungo comunicato, con la condanna dura dei due attentati del 22 marzo. I trecento metri che hanno nascosto il ricercato numero uno hanno fornito altri rifugi. Sono altre, molto probabilmente, le reti di protezione racchiuse nella fuga di Salah. Un mondo che l’intelligence belga e europea a malapena riesce a sfiorare.