Le motivazioni della Corte d'appello di Caltanissetta che ha respinto la richiesta dei legali dell'ex dirigente del Sisde dopo la sentenza di Strasburgo. Solo un mese fa il parere opposto del gip di Catania che ha prosciolto l'editore Ciancio. E intanto pende in cassazione la decisione su Dell'Utri
Il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato che esiste. Perché lo “si rinviene pacificamente” in due articoli del codice penale: 416 bis (associazione mafiosa) e 110 (concorso in reato). Lo scrive nero su bianco la corte d’appello di Caltanissetta, motivando la sentenza con cui ha negato, il 18 novembre dell’anno scorso, la revisione del processo chiesta dai legali di Bruno Contrada, l’ex dirigente del Sisde condannato a dieci anni di reclusione per questa accusa, pena finita di scontare nel 2012.
Il ricorso era basato sulla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale il funzionario non doveva essere condannato perché all’epoca dei fatti contestati – gli anni Ottanta – il reato di concorso esterno non era ancora codificato come tale. La tesi è stata respinta dai giudici di Caltanissetta, che aggiungono un’altra puntatata a una controversia giuridico- politica che si trascina da anni. Poco più di un mese fa, sempre in Sicilia, il gip di Catania Gaetana Bernabò Distefano ha depositato le motivazioni per le quali è stato prosciolto in istruttoria l’editore Mario Ciancio Sanfilippo: il concorso esterno alla mafia, ha scritto il giudice, è “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Nella sentenza, molti richiami alla decisione della Corte di Strasburgo oggi sconfessata dai colleghi nisseni. Sempre sulla “insussistenza” del reato si basa il ricorso presentato dai legali di Marcello Dell’Utri, attualmenete detenuto per una condanna definitiva a 7 anni, nonché la campagna giornalistica lanciata dal Tg5 in favore dell’ex senatore berlusconiano e presidente di Publitalia.
Nelle motivazioni sul caso Contrada, la corte d’appello di Caltanissetta conferma invece l’esistenza del reato: il cuore della sentenza di Strasburgo riguarda la “violazione del principio delle irretroattività e della prevedibilità della legge penale”, cioè la questione se all’epoca dei fatti Contrada potesse prevedere di essere accusato di concorso esterno. Ma secondo i giudici il dirigente della polizia e dei servizi non doveva aspettare la cosiddetta “sentenza Dimitry del 1994”, che per la prima volta affrontava le questioni giurisprudenziali legate al reato di concorso esterno. Per il suo particolare ruolo di alto dirigente della polizia, scrivono i giudici, Contrada sarebbe stato in grado di rendersene conto. La configurabilità del reato era già emersa nel maxiprocesso di Palermo contro Cosa nostra, avviato nel 1986: ad alcuni imputati il reato era stato contestato “anche sulla scorta delle indagini” svolte dagli uffici di cui Contrada faceva parte.
Il legale del funzionario, Giuseppe Lipera, contesta questo “censurabilissimo assunto” e lamenta che siano state respinte “tutte le richieste istruttorie” avanzate dalla difesa per smontare nel merito, con “fatti nuovi”, la sentenza di condanna.
L’avvocato Lipera annuncia che presenterà un nuovo ricorso in Cassazione – la stessa strada seguita dai legali di Dell’Utri dopo la bocciatura del ricorso da parte della Corte d’appello di Palermo – “avverso questa ingiusta ed illogica sentenza”, che sarà inviata al presidente della Repubblica, al presidente della Cedu (Corte europea per i diritti dell’uomo) e al presidente della Grande Camera.