“E’ difficile parlare di sé”, diceva Natalia Ginzburg. I libri di narrativa hanno sempre qualcosa di autobiografico ma il vissuto è quasi sempre setacciato dall’imprevedibilità dell’invenzione. I libri puramente autobiografici sono difficili da scrivere, e chissà se poi servono. Infatti la maggior parte dei libri di non-fiction in cui l’autore non si trasforma nel canonico narratore, ma si butta sulla pagina a tutto tondo, rivelando se stesso, la propria voce, il proprio vissuto, non è che mi piacciano tanto. Trovo la narrativa affascinante, carismatica e piena di senso proprio perché la finzione è uno specchio irresistibile in cui scovare mille riflessi di sé, e attraverso la finzione – e solo attraverso di essa – aprire infiniti spazi immaginifici in cui riversare se stessi. Ciò che ha di buono un buon libro non è l’autobiografia – sostiene Bernard Malamud – ma come l’elemento autobiografico dia sostanza alla narrazione, soprattutto se travasiamo dall’autobiografia qualcosa di vero che poi è destinato a diventare elemento di finzione.

Ultimamente l’auto-fiction è un prodotto editoriale succulento per un sacco di gente: editori, lettori e scrittori. L’autore non è più l’invisibile pensatore chiuso nella propria stanza, ma un personaggio simile a quelli che stanno in tv, solo che al posto del microfono usa la penna. E’ l’immagine, il pettegolezzo che appaga. E’ la contemplazione di un lettore un po’ pigro che fa fare tutto al libro. Un libro così si vende benissimo.

Ecco, quando ho cominciato a leggere l’ultimo libro di Rossana Campo, Dove troverete un altro padre come il mio (Ponte alle Grazie, Settembre 2015) temevo di trovarmi di fronte a una cosa così, una storia piena di confessioni private che non servono a nessuno – se non ad appagare un autore un po’ malinconico. Conoscendo i lavori precedenti dell’autrice me ne sarei stupita. Invece, per fortuna, la Campo che conoscevo io – arguta, grottesca, dal tono falsamente cinico ma pieno di drammaticità – sta tutta quanta nelle pagine. La storia, per quanto autobiografica, per quanto palesemente aderente alla vita della scrittrice, non ha il tono dell’auto-fiction, né del semplice mémoir (per quanto ci assomigli di più). Perché ciò che la Campo compie è una pura acrobazia narrativa: il lettore è costretto a non chiedersi: sarà vero? E l’aneddoto, per esempio, in cui il papà Renato porta a casa tutto quel pesce surgelato rovesciato da un camion, è successo veramente o l’autrice se lo è un poco inventato? Questo padre così affettuoso ma violento, questa sua ostinata ribellione alle regole sociali, le sue manie distruttive, corrispondono davvero al padre della Campo?

Ecco, tutte queste domande il lettore non se le pone. Non gliene importa un granché del pettegolezzo, perché nonostante sappia benissimo che siamo in una storia autobiografica, se lo dimentica, la legge come leggerebbe qualsiasi altra storia di finzione. Col trasporto dei bambini quando chiedono: e poi, che succede? Questo accade raramente con qualsiasi altro libro di auto-fiction. Tale piccolo miracolo – come lo ha definito Valeria Parrella – avviene grazie a un paio di cose che un bravo scrittore sa usare bene: la lingua e lo stile, che la Campo destreggia come una bacchetta magica. Immediato, ironico, pieno di arguzie eppure di una semplicità quasi infantile. Una lingua che gioca ad imitare il colloquiale, senza rinunciare a condensare tutta la tragicità di fondo che appartiene all’essere umano. Questa scrittura così puntuale, è il solo strumento per far emergere la verità delle cose. E la verità delle cose, che appartenga a un ricordo o a un episodio di fantasia, è ciò che la narrativa tenta di raccontare.

La verità delle persone viene sempre tenuta nascosta […].
Credo di essermi messa a scrivere per provare a portare fuori la verità delle cose.

Infatti, in questo breve testo così intenso, ciò che la Campo in realtà compie è una riflessione su se stessa, sul suo lavoro di scrittrice e sulla sua scrittura. E di come la scrittura possa diventare un autentico spazio di verità.

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